Dialoghi tra Maurizio G. De Bonis e Marco Barbon sull’immagine della città #3

© Marco Barbon. Casablanca, Maroc. 2010. Une jeune femme sur la corniche dans le quartier de Ain Diab

Caro Maurizio,

Sono d’accordo con te sulla necessità di perdersi, per evitare di cadere sotto la seduzione della « gigantesca macchina erotizzante » che è Roma e riprodurne passivamente gli stereotipi. Andare alla ricerca dei non-luoghi, intesi come quegli spazi che sfuggono al discorso dominante – spazi che essa offre generosamente, come dici tu, a chi osa uscire dalle strade battute: è questo  probabilmente l’unico modo di sfuggire alla pornografia della « città eterna ». Smarrirsi per ritrovare la giusta via, dimenticare per poter fare veramente l’esperienza di qualcosa: è questo il movimento paradossale che mi sono sempre sforzato di mettere in atto in tutte le mie indagini fotografiche e che mi propongo di praticare anche in questo mio lavoro su Roma (non è questa, d’altronde, l’attitudine caldeggiata dai surrealisti, quella di Dante nella Divina commedia e, più in generale, quella di ogni esploratore o esploratrice che si rispetti?). Mi verrebbe da dire che questo movimento è, per sua natura, centrifugo. Tradotto nella situazione che ci interessa, ciò vorrebbe dire che è soprattutto nella periferia – ai confini di quell’entità geografica che chiamiamo ‘città’ – che possiamo ritrovarne l’essenza. Soprattutto, ma non solo: di fatto la frontiera, a Roma più che altrove, è dappertutto. Ci ritornerò.

© Marco Barbon. Casablanca, Maroc. Dans la médina. 2010

Come vedi, non posso fare a meno di parlare in termini essenzialistici; come se esistesse davvero una « essenza » della città e, nella fattispecie, un’essenza di Roma. È chiaro che quella che chiamo qui, per facilità, « essenza » è in realtà un fatto soggettivo: la mia idea di Roma, che ha le sue radici nella mia storia personale e che si accompagna quindi, inevitabilmente, a una forte carica emotiva. Al contrario, il « non-luogo » – nel senso in cui l’intende Marc Augé (e anche – direi – nel senso in cui l’intendeva Foucault quando parlava di eterotopia) è uno spazio impersonale, asettico, senza determinazioni o con un minimo di determinazioni, e proprio per questo spaesante. Ora non credo che lo spaesamento – inteso come la sensazione di essere ‘fuori posto’ – possa costituire la colorazione emotiva fondamentale della mia ricerca fotografica. Al contrario, sono convinto che quest’ultima non possa fare a meno di scaturire da un ritorno all’origine e quindi da una forma di ‘nostalgia’. Riesumando uno dei luoghi comuni più diffusi e tenaci che induce la nostra città, mi verrebbe da parlare di un ritorno al ventre materno – con tutto quello che un tale ritorno ha di assurdo e, in fondo, di impossibile. Mamma Roma, la lupa che allatta Romolo e Remo: inutile sottrarsi, per chi è cresciuto all’ombra di questa leggenda fondatrice, a un tale nodo simbolico. Non mi resta che tenerne conto.

Mi sembra allora che la strada da seguire sia questa: evitando, per quanto possibile, i luoghi comuni ed esplorando gli interstizi della città in cui sono nato (e da cui sono fuggito), tornare all’origine della mia propria esperienza di Roma, con l’obiettivo di restituirne una rappresentazione quanto più calzante. Incidentalmente, questo movimento di andata e ritorno – di abbandono e di ricongiungimento – mi pare, se non la conditio sine qua non, almeno un fattore che favorisce l’emergere di una visione pertinente di un luogo, qualunque esso sia. Ed è qui che il termine « spaesamento » può ritrovare tutto il suo senso. Blaise Cendrars diceva di Marsiglia che « appartiene a chi viene da lontano (Marseille appartient à qui vient du large) »… lo stesso vale per Roma?

Marco
17 novembre 2021, Bonnieux

 

Frame tratto dal film “L’eclisse” di Michelnagelo Antonioni, 1962

Caro Marco,

Roma può appartenere solo a chi viene da lontano. A mio avviso, su ciò non c’è dubbio. Così, come ogni città, ogni metropoli, appartiene solo a chi non vi è nato, a chi non ha radici, a chi non ha ricordi. Non sembrino paradossi queste mie considerazioni. Sono, infatti, constatazioni che ho potuto effettuare grazie al mio lavoro sul campo, da anni. Chi è nato e vissuto a Roma (ma potremmo parlare di qualunque altra metropoli) è di fatto accecato dalla sua esperienza quotidiana, dal suo vivere affannosamente, e in modo speranzoso, dentro il suo stordente caos, dentro quella confusione che ubriaca e soddisfa, che nevrotizza e genera desiderio incessante, desiderio di cercare ciò che non si potrà mai trovare.

E’ proprio per tale motivo che la tua condizione potrebbe essere favorevole a sviluppare un lavoro non già basato solo sull’esperienza vissuta quanto piuttosto sul concetto di memoria, cioè di attualizzazione di un passato che riemerge, però, solo in forma estetica, come sentimento di una percezione perduta, di un’esperienza dimenticata.

La tua, in tal senso caro Marco, è la condizione ideale di un “quasi straniero” che può percepire la città con gli occhi pieni di un mito in grado di porti fortunatamente al riparo dal pericolo della rappresentazione di ciò che Roma è oggi.

Frame tratto dal film “L’eclisse” di Michelangelo Antonioni

Ogni sguardo straniero possiede una lucidità espressiva e una spinta poetica utile per vivere quella nostalgia di cui parli. E per quel che ti riguarda si tratterebbe di nostalgia di un passato archetipico che ormai puoi solo immaginare, forse sognare ad occhi aperti.

Così, sarebbe ben più interessante ritrovare nelle tue inquadrature una Roma immaginata, vagheggiata, fantasticata, inventata, trasfigurata, smontata e rimontata, distrutta e ricostruita, pienamente tradita, una Roma, dunque, che diviene spazio di ricodificazione tutto interiore e che non ha nulla a che fare con la rappresentazione oggettiva della realtà odierna. Ecco perché sono fondamentali gli interstizi e i margini, i non luoghi, le assenze e non le presenze, ciò che apparentemente “non c’è” piuttosto che “ciò che certamente c’è”.

Per questo motivo sarebbe fondamentale l’attraversamento della città, di Roma, in una sorta di vagabondaggio anarchico  e scomposto, in un abbandono estetico privo di metodo e caratterizzato da sensazioni come quelle causate dalla perdita dell’orientamento. E tutto ciò dovrebbe avvenire nella consapevolezza che la città, in verità, è un non luogo caratterizzato dall’intreccio delle pieghe, dalla iperbolica proliferazione tecnologica, parossistica e (post)modernista dell’idea del barocco.

Diceva Italo Calvino: “…tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e paure”.

Maurizio
19 novembre 2021, Roma

Dialoghi tra Maurizio G. De Bonis e Marco Barbon sull’immagine della città #1
Dialoghi tra Maurizio G. De Bonis e Marco Barbon sull’immagine della città #2

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