Dialoghi tra Maurizio G. De Bonis e Marco Barbon sull’immagine della città #2

© Marco Barbon. Asmara, Erythrée. 2007. Immeuble via della Stazione

Caro Maurizio,

che il nostro sguardo – intendo quello degli artisti visivi (ma non solo) – sia « sopraffatto », come dici tu, dai luoghi comuni e dalle visioni ripetute che, nel loro intreccio secolare o addirittura millenario (come è il caso di Roma) costituiscono la trama di una città, mi sembra un dato di fatto. Non credo però che costituisca un problema, ammesso che si dia a questo termine una valenza negativa. O meglio : credo che diventi un problema soltanto nel caso in cui l’artista che si lancia nell’impresa di offrirci la « sua » visione della metropoli non sia cosciente di questo meccanismo, ovvero della fondamentale passività in cui il suo sguardo è condannato ad operare. Mi pare innegabile che la nostra soggettività – e quindi, a maggior ragione, la nostra attività creativa – non è mai pura e sovrana, ma è sempre – come direbbe Heidegger – « gettata nel mondo » (Geworfenheit) : il ‘si dice’ – ovvero l’insieme dei luoghi comuni e delle credenze proprie alla cultura a cui apparteniamo – costituisce il nostro orizzonte originario, da cui non possiamo mai staccarci completamente. Credo perciò che sia impossibile uscire da questa « logica », come tu sembri suggerire. Ciò non vuol dire però che un margine di scarto non ci sia, ovvero che non sia possibile prendere le distanze dalla trama accecante di queste pre-esistenze e riuscire a dare di questa città-che-già-ci-è-stata-raccontata una rappresentazione nuova (mentre scrivo mi viene da pensare ai « territori attuali » del collettivo artistico Stalker). In questo senso, rappresentare fotograficamente Roma mi sembra paragonabile a proporre una nuova traduzione dell’Odissea : la storia ci è già stata raccontata e trascritta innumerevoli volte ed in innumerevoli forme, ma una nuova traduzione, posto che affronti seriamente il problema della lingua originaria e che si confronti seriamente – senza complessi di inferiorità né di superiorità – con le traduzioni esistenti, potrà dare a questo epos una forma nuova.

© Marco Barbon. Casablanca, Maroc. 2010. La rue Prince Moulay Abdellah, en centre ville

Concordo quindi con la tua affermazione secondo cui « quasi sempre è la città che fotografa (…) l’artista visuale, e non il contrario ». Eppure, volendo rimanere nella metafora, l’artista – supposto che abbia un universo artistico (uno ‘stile’, per così dire) – si trova, nel momento in cui la città lo ‘fotografa’, in un ‘luogo’ particolare (il suo universo artistico, per l’appunto) ; l’immagine che risulterà da questo incontro sarà quindi diversa da quella che la città genererebbe se confrontata ad un altro artista. In fondo Pasolini mi sembra dire la stessa cosa quando scrive che  Roma gli « ha fatto scoprire ciò che, in ognuno, era il mondo ». Certo c’è il « mondo » – l’insieme inesauribile di tutte le storie – ma questo mondo si rivela ad ognuno di noi in modo sensibilmente diverso. Ed è in questa rivelazione (che si produce nella camera oscura della psiche) che la città, offrendo all’artista visivo la proiezione di se stessa attraverso il conio del suo particolare sguardo e delle sue idiosincrasie, impercettibilmente si trasforma. La Roma di Pasolini, d’altronde, non è la stessa città raccontata da William Wyler in Vacanze romane né quella di Paolo Sorrentino in La grande bellezza. E quest’ultima ha poco in comune  – mi sembra – con la Roma di Carlo Verdone o con quella di Antonioni. Per rimanere in ambito fotografico, la Roma di Josef Koudelka (Teatro del tempo) è sensibilmente diversa da quella che ci mostrano le foto di Olivo Barbieri o da quella rivelataci da Alberto Lattuada nel suo libro L’occhio quadrato. È come se la stessa città producesse immagini diverse di sé, a seconda di come si specchia nello sguardo di chi, di volta in volta, si arrischia a riprodurne le fattezze (nota che ancora una volta, senza farlo apposta, ho utilizzato la metafora del ritratto…). Non so se sia legittimo parlare di un effetto illusionistico della città sul soggetto guardante ; ciò implicherebbe infatti l’esistenza di una idea platonica della città – non credi?

Resta che il tentativo di rappresentare fotograficamente Roma pone, come rilevi giustamente tu, innumerevoli difficoltà. E non si tratta soltanto di evitare di fare l’ennesima foto al Colosseo o di astenersi dal fotografare una giovane coppia in Vespa. Ma prima di esaminare alcune di queste difficoltà e proseguire sul cammino di pensiero che abbiamo intrapreso, mi piacerebbe sapere quale è, a tuo avviso, il margine di libertà di un artista visivo rispetto alle immagini pre-costituite di una metropoli ; e, se un margine esiste – per quanto infimo sia – quali siano secondo te le sue condizioni di possibilità ; infine se questo margine di libertà sia o no lo stesso di quello di cui dispone un regista o uno scrittore.

Marco
Bonnieux, 11 novembre 2021

 

Frame tratto dal film “Roma” di Federico Fellini, 1972

Caro Marco,

hai ragione quando sostieni che l’atto di fabbricazione artistica non sia mai puro e sovrano. Il nuovo, di fatto, non esiste se non come più recente, e non definitivo, esito di una concatenazione creativa secolare (se non addirittura millenaria). In tal senso, la tradizione, come Pasolini insegna, non rappresenta un elemento su cui imbastire posizioni conservatrici, o peggio reazionarie, quanto piuttosto la struttura fondamentale su cui edificare un discorso personale teso a proporre una visione moderna e progressista anche dell’atto artistico.

Ma ritorniamo alla questione della (ir)rappresentabilità della città, in generale, e di Roma in particolare. La tua posizione mi sembra chiara e risponde naturalmente a una coscienza autoriale in grado di operare a un livello intellettuale elitario (e uso questa definizione non in senso dispregiativo), un livello che mette al riparo, con tutta probabilità, il tuo processo espressivo dal problema della clonazione di stilemi già esistenti e dall’effetto nefasto della ridondanza estetizzante. Eppure, ti assicuro caro Marco, che il problema (chiamiamolo così) esiste e si manifesta in modo eclatante anche nell’opera di alcuni cosiddetti grandi fotografi, che spesso e volentieri diventano, loro malgrado e senza alcuna colpa ovviamente, dei cattivi maestri.

Frame tratto dal film “Roma” di Federico Fellini, 1972

Andiamo a Roma. Si tratta, a mio avviso, di una gigantesca macchina erotizzante, una “grande madre” oscura e rutilante, misera (come ha detto proprio Pasolini) e splendida, ripugnante ed eccitante: una sorta di spettacolo pornografico, di corpo morbosamente attraente che stimola inevitabilmente gli stessi impulsi creativi in soggetti diversi. E’ difficile per chiunque sottrarsi a questi stimoli che di fatto producono, malgrado le buoni intenzioni dei fotografi, sempre immagini ritornanti.

Per un autore, dunque, si pone una domanda: come evitare, almeno parzialmente, l’opera di seduzione che questo organismo “vivente” mette in atto su chi guarda? Le strade potrebbero essere diverse. Si potrebbe ad esempio iniziare a indagare negli interstizi della città stessa, in quei cosiddetti “non luoghi” di cui Roma è piena e nei quali il potere erotizzante della capitale italiana incredibilmente si spegne. In tal senso. l’indagine che un artista deve effettuare non è semplice e  non può essere di breve durata poiché Roma è un dedalo vorticoso nel quale è necessario sapersi perdere per riuscire a liberarsi dai potenti e stordenti significanti  da cui è in gran parte caratterizzata.

Come ha scritto Walter Benjamin: ” Non sapersi orientare in una città non vuol dire molto. Ma smarrirsi in essa, come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare”.

Maurizio
Roma, 12 novembre 2021

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