Dialoghi tra Maurizio G. De Bonis e Marco Barbon sull’immagine della città #1

© Marco Barbon. THE INTERZONE, Tangeri Vista da un edificio della rue Allal-Ben-Abdellah, 2016

Caro Maurizio,

La breve conversazione che abbiamo avuto qualche settimana fa a Monteverde mi ha dato molto da pensare, e continua a farmi problema. Mi piacerebbe allora riprenderne il filo per cercare di svilupparlo insieme a te, a costo di renderlo ancora più difficile da districare.

Ti propongo di cominciare da questo nodo, che è poi quello attorno a cui si è concentrata – mi sembra – la nostra conversazione: la difficoltà, se non l’impossibilità, di fotografare Roma. Stavo per scrivere: una città come Roma… formulazione che aprirebbe alla questione – più vasta – riguardante la possibilità di comporre fotograficamente il ‘ritratto’ di quelle città – come Roma appunto, o Parigi, oppure New York – dotate di un’indubbia carica simbolica o più precisamente mitica (nel senso etimologico del termine, che rinvia alla dimensione narrativa). Mi sembra peraltro – correggimi se sbaglio – che tentare di rispondere al primo interrogativo (è possibile tracciare un ritratto fotografico adeguato di Roma?) possa contribuire non solo a far luce sulla questione più generale (è possibile fotografare una città assunta a mito?) ma anche a fornire qualche elemento di risposta al problema, ancora più generale, che consiste a chiedersi in che cosa consista fotografare una città e – dato che ogni città (Marsiglia come Los Angeles o Gibraltar) ha diversi ‘volti’ – che senso abbia affermare che una rappresentazione è adeguata o più adeguata rispetto alle altre.

Come dicevo, tutti questi interrogativi mi fanno problema e, almeno inconsapevolmente, mi hanno accompagnato sin dall’inizio della mia ricerca fotografica. Infatti, come sai, da quando ho iniziato a fotografare mi sono interessato alle città, e fino ad oggi ho realizzato e pubblicato tre lavori a lungo termine, che hanno la pretesa di essere altrettanti ‘ritratti’ di città (uso questo termine, non trovandone di migliori): Asmara (Asmara Dream, Postcart, 2008), Casablanca (Casablanca, Postcart, 2011) e Tangeri (The Interzone, Postcart, 2017). Non solo. In questo momento – ed è stato proprio questo, come sai, il motivo del nostro incontro – sto lavorando ad un progetto fotografico su Roma. Puoi capire bene allora quanto la tua affermazione – che sostanzialmente condivido – secondo cui sia difficile se non addirittura impossibile fotografare la nostra città mi faccia problema (impossibile : mi sembra che questa sia stata l’espressione che hai usato, o mi sbaglio?).

© Marco Barbon. INTERZONE. Tanger, La strada del Teatro Cervantes, 2015

Dico apposta la nostra città. Forse potrai percepirla come una bizzarria, o addirittura come una provocazione, dato che sono esattamente ventidue anni che non vivo più a Roma e che la frequento di rado; per di più, veniamo da due quartieri molto diversi e abbiamo probabilmente avuto due esperienze di Roma che hanno poco in comune. Eppure mi sembra che, nonostante viva da tanti anni  – e senza rimpianti – lontano da Roma e nonostante, anzi forse proprio perché ho voluto abbandonarla – Roma resti la mia città. Credo che non sia solo il conteggio degli anni (ventisette passati a Roma, contro i dieci vissuti a Parigi e undici a Marsiglia) che mi porti ad affermare che mi sento romano, ma il fatto che Roma – e vorrei sapere cosa pensi a questo proposito – sia una città archetipale. Archetipale perché all’origine del concetto stesso di città (urbs) e anche perché « Roma è un mito continuamente rinnovabile e insieme una fabbrica di miti », come ha ben detto Christian Raimo in un recente libro di cui ti avevo accennato nel corso della nostra conversazione.

Mi sembra incontestabile che a Roma in quanto contesto narrativo ovvero « fabbrica di miti » sia associata l’idea della decadenza (di una decadenza che, per così dire, non cessa mai di accadere) e, in ultima analisi il concetto di rovina (Raimo parla di Roma come di un « catalogo di rovine »). Ed è proprio il concetto di rovina – e tutta la costellazione di idee ad esso correlate – che intendo mettere al centro del mio lavoro fotografico su Roma, come un filo rosso che lo percorrerebbe dall’inizio alla fine.

Mi pare che le questioni fin qui evocate siano già abbastanza impegnative. Probabilmente altre se ne aggiungeranno in seguito. Dal canto mio diffido sinceramente della possibilità di dare una risposta a tutte queste domande. Anzi, credo che questo nostro dialogo a distanza debba accettare pienamente il carattere irrisolto e fondamentalmente irrisolvibile di questi interrogativi, e le nostre riflessioni la forma di quello che potremmo chiamare, con Heidegger, dei « sentieri interrotti »: frammenti di un pensiero frattale? Del resto, la rovina e il frammento sono concetti limitrofi e mi sembra che un approccio frammentario sia il modo meno inadeguato per trattare di Roma – non ti pare?

Nell’attesa di leggerti,
Amichevolmente,

Marco
Bonnieux, 1 novembre 2021

 

Frame tratto da “Mamma Roma” di Pier Paolo Pasolini

Caro Marco,

i problemi che elenchi nel tuo messaggio rappresentano per me territorio di lavoro ormai da molti anni, così come le domande che poni sono le stesse che mi faccio da quando ho iniziato a studiare la questione della (ir)rappresentabilità della città, o meglio della metropoli.

Il mio ragionamento parte da alcuni punti precisi: il nostro sguardo è sopraffatto dalle cosiddette preesistenze, cioè da quella moltitudine di luoghi comuni, pregiudizi e visioni ripetute (anche inconsce) che abita la nostra mente, soprattutto in relazione a quelle grandi città che più volte si è tentato di raffigurare nelle arti visive, a cominciare dal cinema e dalla fotografia. Questo aspetto comporta un’ulteriore inevitabile riflessione: quando un fotografo o un cineasta si relaziona con il caos di una metropoli fatalmente andrà in cerca di ciò che ha già “visto”, o meglio “stravisto”, nei mass media, nei film, in altri lavori fotografici, sui giornali, oppure che ha letto in libri o riviste, oppure ancora che ha sentito attraverso i racconti di chi queste città le ha visitate. Ciò è inevitabile ed evidenzia un problema chiaro: la stragrande maggioranza dei lavori fotografici e/o dei documentari sulle grandi città non rappresenta certo il risultato di una relazione pura e “sincera”  dell’individuo con l’elemento in questione. In sostanza, e ciò non suoni come un paradosso artificioso, quasi sempre è la città che fotografa (nel caso della fotografia) l’artista visuale e non il contrario. La metropoli nell’ambito della relazione impossibile che la vede connessa al fotografo gioca un ruolo attivo e non passivo, si fa forza del proprio status di organismo “vivente”, illude e seduce il soggetto guardante sollecitando il suo ego e dando soddisfazione ai suoi desideri espressivi.

Frame tratto da “Mamma Roma” di Pier Paolo Pasolini

Che cosa dunque è necessario fare per poter filmare/fotografare la città fuori da questa logica? Il discorso è complesso e sarebbe interessante, in questo nostro “carteggio”, cominciare a riflettere proprio riguardo le innumerevoli difficoltà che presenta una città come Roma, che tu definisci archetipale.

Così, per il momento ti propongo di iniziare il nostro ragionamento, per quel che riguarda la metropoli (o presunta tale)  che ci accomuna,  da un passaggio di un testo poetico di Pier Paolo Pasolini intitolato il Pianto della scavatrice: “Stupenda e misera città che mi hai fatto fare esperienza di quella vita ignota: fino a farmi scoprire ciò che, in ognuno, era il mondo”.

Penso che questo passaggio pasoliniano possa essere per noi un formidabile punto di partenza intellettuale, pieno di spunti e di intuizioni.

Il tutto, per ragionare su quella che io ho definito come l'(ir)rappresentabilità della città, dal punto di vista generale, e sull'(ir)rappresentabilità di Roma, in particolare.

Maurizio
Roma 7 novembre 2021

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