L’esperienza del dubbio nell’universo espressivo di Adrian Paci

© Adrian Paci. Da “She” (2008)

In un’intervista del 2017, l’artista visivo Adrian Paci esprime con grande semplicità e con altrettanta chiarezza, un concetto che condivido e trovo estremamente interessante, una sorta di chiave di lettura utile sia per addentrarsi nella sua produzione artistica, sia per avvicinarsi all’arte in generale, contemporanea ma non solo. Nella sua risposta alla domanda “Come si fa a capire l’arte contemporanea?”, Paci invita il fruitore ad abbandonare la pretesa di voler comprendere tutto e subito e piuttosto a rimanere nel dubbio. Il “fare esperienza del dubbio”, riprendendo le sue esatte parole, diventa un momento centrale per fruire e cercare di comprendere un’opera e per far sì che questa restituisca a pieno il suo valore a chi la sta osservando.

D’altra parte tutto il suo percorso creativo trova un enorme stimolo proprio nell’operare all’interno dell’incertezza, un territorio in cui si generano tensioni tra situazioni diverse, talvolta contrapposte, che danno vita all’opera d’arte stessa.

Nato in Albania, a Scutari, Adrian Paci lavora da anni a Milano, dove si è trasferito a seguito dei disordini politici che hanno segnato a lungo la vita del suo paese d’origine ed è proprio questa esperienza, vissuta in prima persona, che ha caratterizzato in maniera forte e distintiva tutto il suo percorso artistico.

Le problematiche legate alla migrazione dei popoli, infatti, sono diventate centrali nel suo lavoro, ma nell’affrontare questo tema l’artista non si pone mai come un narratore che guarda il fenomeno dall’esterno, reporter attento al fatto di cronaca. Attraverso la sua personale esperienza, trasportata sul piano estetico, avvia una riflessione sull’argomento che diventa universale e che condivide con lo spettatore.

Ne è un esempio una delle sue opere più note, Centro di permanenza temporanea (2007), un video di poco più di cinque minuti, in cui mostra un gruppo di uomini e donne che camminano in silenzio su una pista d’atterraggio deserta, nell’aeroporto di San José in California. In fila indiana si apprestano a salire su una scaletta d’imbarco e solo quando sono montati tutti e la scala è completamente stipata, l’artista mostra la scena surreale che stanno vivendo: davanti al gruppo non c’è alcun aereo su cui salire, nessuna destinazione da raggiungere. La scala piena di corpi composti rimane al centro della pista assolata, sospesa in un’atmosfera metafisica, mentre intorno, incuranti della circostanza, continuano a decollare e ad atterrare i voli di linea.

La parte centrale del video indugia con insistenza sui volti e sugli sguardi silenziosi sfiorati dal soffio del vento che fa da sottofondo. Le inquadrature ravvicinate sfondano i limiti della macchina da presa e conducono lo spettatore a far parte del gruppo, ormai pervaso da un crescente sentimento di instabilità e di sospensione.

Il modo in cui Paci rappresenta questa situazione destabilizzante diventa un invito a riflettere su una condizione universale che va oltre il singolo evento e che non appartiene solo a quello specifico gruppo di persone, evidentemente profughi, ma è propria dell’intero genere umano, quella dell’essere in attesa dell’ignoto che ci sta davanti, cercando invano di scorgere qualche appiglio di certezza che tarda ad arrivare e che non arriverà mai. Tutti a guardare, con occhi curiosi e timorati, nella stessa direzione imperscrutabile che non dà risposte alle tante domande.

Un altro interessante invito a rimanere nell’incertezza ci viene proposto attraverso l’opera dal titolo Vajtojca (The Weeper, 2002). Anche in questo caso Paci ricorre all’uso del video e mette in scena un rito funebre di cui è protagonista e a cui siamo chiamati a partecipare. Ritorna il tema del cammino verso l’ignoto: è lui stesso a recarsi in una dimora dove lo accoglie un’anziana donna, si cambia d’abito e si prepara accuratamente per l’evento, si distende sul letto e da quel momento l’anziana, che ora sappiamo essere una prèfica, lo accompagna nel suo trapasso con i canti lamentevoli della tradizione albanese, alla fine dei quali il defunto si rialzerà per iniziare una nuova vita.

Un video di circa nove minuti che richiama lo spettatore a riflettere sulla condizione esistenziale dell’uomo e che si mostra ricco di rimandi ad altri temi cari all’artista, quali  l’attaccamento alla tradizione albanese e la centralità della figura femminile, fulcro ricorrente all’interno della sua opera.

Significativa in tal senso è la serie di sedici incisioni all’acquatinta dal titolo She (2008) in cui è inquadrato in primo piano il volto di un’anziana che guarda verso l’osservatore, mentre nella stanza alle sue spalle si scorge un gruppo di persone in festa. Rispetto alla scena familiare rappresentata la figura femminile occupa un posto marginale, ma ella diventa fondamentale nell’instaurare un rapporto tra chi guarda l’opera dall’esterno e ciò che sta accadendo all’interno. Elemento di collegamento tra l’individuale e l’universale, ci porta a riflettere sullo scorrere del tempo e sulla caducità della vita umana.

Le stampe, realizzate con una tecnica che per sua natura riesce a restituire al meglio le sfumature, si susseguono l’una dopo l’altra con differenze minime e fissano alcuni momenti del breve video da cui sono tratte. Questa pratica di estrapolare frame di film per restituirli in forma pittorica non è un’eccezione nell’opera di Adrian Paci, ma si ritrova anche in altri lavori che partono dal cinema, in particolare dai pilastri a cui l’artista si ispira (Pasolini, Antonioni, Bèla Tarr), per assumere un’altra fisionomia: qui l’opera si genera nel momento di passaggio tra l’immagine in movimento e l’immagine ferma, un territorio in cui Paci ama particolarmente lavorare. Lo sconfinamento tra varie discipline artistiche è ricorrente nella sua vasta e variegata produzione che non è facilmente riconducibile ad un genere o delimitabile in un preciso spazio d’azione. Sebbene sia noto al pubblico soprattutto per la produzione di video, Paci si esprime in modi differenti senza mai precludersi la possibilità di ricorrere liberamente alla pittura, alla fotografia, alla scultura e al disegno, qualora l’idea lo renda necessario: la tecnica non è mai fine a se stessa, ma si configura come uno strumento al suo servizio, utilizzato al fine di rispondere al meglio alle proprie esigenze espressive.

In lui è forte l’urgenza di riscoprire, attraverso l’arte, realtà diverse che incontra di volta in volta nel suo percorso di vita, senza porsi obiettivi predefiniti. Altrettanto forte è la necessità di dar forma a questo rapporto con la realtà attraverso il ricorso a modalità differenti che trovano nel suo punto di vista sul mondo il filo conduttore che le tiene unite. Un approccio molto interessante che merita ulteriori approfondimenti e soprattutto un invito a riflettere sulle difficoltà che ancora persistono nel mondo dell’arte ad uscire dai limiti stringenti legati ai generi e alla tecnica che possono imprigionare la crescita espressiva di un artista se non saputi utilizzare correttamente.

© CultFrame 10/2021

SUL WEB
MoMA. L’opera She di Adrian Paci

 

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