Qui rido io ⋅ Un film di Mario Martone

Qui rido io era la scritta che Eduardo Scarpetta (1853-1925) volle apporre sulla facciata della Villa Santarella edificata al Vomero grazie ai proventi dei suoi successi al botteghino e in particolare dopo l’eccezionale riuscita di Miseria e nobiltà e del personaggio di Felice Sciosciammocca con cui si vantava d’avere scalzato Pulcinella al primo posto delle maschere napoletane più amate. Ricostruendo le vicende famigliari di Scarpetta e la tribolata querelle giudiziaria che lo vide accusato di plagio e contraffazione de La figlia di Iorio di Gabriele D’Annunzio (1904-1908), Mario Martone prosegue con questo suo film l’affresco dell’Italia tardottocentesca e primonovecentesca iniziato in Noi credevamo (2010), Il giovane favoloso (2014) e Capri Revolution (2018). In Qui rido io, e ciò non accadeva da Teatro di guerra (1998) già allora con protagonista Toni Servillo, è però il mondo del teatro tanto praticato dal regista napoletano a essere al centro di una commedia corale in cui si alternano comico e tragico e tre differenti ambienti che si rivelano ben presto contigui: il teatro vero e proprio, la famiglia e il tribunale.

La prima parte del film ci permette di conoscere, in un continuo avvicendarsi tra i primi due, la famiglia teatrale del capocomico Scarpetta e quella carnale altrettanto numerosa (almeno nove figli da tre diverse donne). Nella commedia della vita, tra pranzi domenicali in cui a lui solo spetta fare le porzioni dei commensali (tra elogi e rimproveri), quest’ultima gli era necessaria quanto il suo pubblico e nutriva inevitabilmente le fila della sua compagnia. Fin dall’incipit, regalandogli poi anche la scena finale, Martone presenta i personaggi bambini di Eduardo e Titina che terranno per tutta la vita il cognome materno De Filippo, cui si aggiungerà il più piccolo Peppino. Tutti e tre erano figli della sorella della moglie di Scarpetta, che non li riconobbe mai ufficialmente come propri, e a tutti e tre toccò la corvée dell’esordio sul palcoscenico nella parte di Peppiniello in Miseria e Nobiltà, con la celebre battuta dai tanti significati “Vincenzo m’è padre, a me!”.

Nel suo libro autobiografico intitolato Una famiglia difficile (1977), Peppino si sofferma sugli anni trascorsi a balia in campagna, che vediamo anche nel film, e sul traumatico ritorno dalla madre e dai fratelli a Napoli. Il ritratto severo dello zio/padre contenuto in questo libro fece sì che Eduardo tolse per sempre il saluto al fratello. Martone lo ritrae come un bimbo saggio e contegnoso che ha già capito le regole del gioco e sa convincere Peppino ad accettare la parte che lo zio/padre gli impone di interpretare: “vuoi la libertà? È là sul palco la tua libertà”. Malgrado ciò sia profondamente vero, tutti i figli legittimi e non di Scarpetta subirono i condizionamenti del padre nel muovere i propri passi sia a teatro sia nel nascente mondo del cinema. Ma ciò non impedì ai De Filippo di creare una loro compagnia e alla stirpe degli Scarpetta di durare fino ai giorni nostri come dimostra la carriera del nipote omonimo del capostipite che per Martone recita la parte di Vincenzo.

L’altro palcoscenico in cui si giocano le umane sorti, e quelle professionali di Scarpetta, è il tribunale. La causa sul diritto d’autore che colpì l’artefice di una parodia dichiarata (Il figlio di Iorio) era un fatto allora totalmente inedito in Italia. Nella sua autobiografia Cinquant’anni di palcoscenico (1922), Scarpetta stesso racconta l’incontro col Vate, interpretato nel film di Martone da Paolo Pierobon, avvenuto a Marina di Pisa in una notte di tregenda metereologica e da cui riportò a casa un’autorizzazione verbale (“la parodia non ha bisogno di permesso”) con però un seguito di telegrammi e diffide. Alla prima al Teatro Mercadante di Napoli (dicembre 1904) lo spettacolo viene interrotto da una contestazione organizzata di fischi e urla. Il direttore della SIAE, dicendosi rappresentante anche del socio D’Annunzio, avvierà un procedimento pluriennale che avrà infine un esito positivo per Scarpetta, minando però la sicurezza che lui aveva maturato nei confronti del pubblico che lo aveva portato in quegli anni all’apice del successo oltre che le sue relazioni nell’ambiente culturale partenopeo.

Scarpetta e D’Annunzio, con i loro “eccessi vitali” pubblici e privati, rappresentano in forme opposte una sorta di summa dell’arci-italiano d’inizio secolo scorso. In casa e fuori, tra amanti e tavolate imbandite, Eduardo è infatti sempre famelico di affetto e riconoscimento, e pertanto subisce come un duro colpo il processo in cui ha schierata contro buona parte della cultura alta napoletana dell’epoca, con la notevole eccezione di Benedetto Croce, suo perito di parte. Ma l’argomento che portò i giudici a dichiarare che il reato non sussisteva, difeso da Croce, ridimensionava la commedia di Scarpetta al rango di una caricatura che non poteva neanche lontanamente essere raffrontata all’originale. E in fondo ciò confermava la distinzione sostenuta da giovani intellettuali quali Ferdinando Russo, Libero Bovio o Salvatore Di Giacomo tra Scarpetta e il “teatro dell’arte” che quelli volevano promuovere.

Proprio Di Giacomo, autore del celeberrimo testo di Era de maggio, accettò di essere perito di parte dell’accusa con il filologo Enrico Cocchia e favorì poi con la messinscena di Assunta Spina (tratto dalla sua novella omonima, che debutta nel 1909) il ‘tradimento’ dell’attore sodale di Scarpetta Gennaro Pantalena (qui interpretato da Gianfelice Imparato che fu peraltro Scarpetta nello spettacolo di Francesco Saponaro A causa mia, dedicato qualche anno fa al medesimo caso giudiziario e in cui nella parte del Vate figurava il fratello di Toni, Peppe Servillo). Nei crediti di Qui rido io non è segnalato un compositore delle musiche, ma solo l’indicazione che Martone ha selezionato personalmente il gran numero di canzoni della tradizione napoletana che costituisce la colonna sonora, spesso eseguita dal vivo sul set. Non mancando tra tali classici quelli firmati da coloro che furono gli avversari di Scarpetta (Di Giacomo, Russo, etc.), il regista omaggia anche la loro arte senza limitarsi a una facile contrapposizione con il protagonista assoluto del film, a sua volta non privo di ombre e contraddizioni.

© CultFrame 09/2021

Film presentato alla 78° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia

TRAMA
Nella Napoli d’inizio Novecento, Eduardo Scarpetta è una vera e propria celebrità. Autore e interprete di commedie di straordinario successo, quando assiste a Roma alla rappresentazione de La figlia di Iorio di D’Annunzio ha l’idea di firmarne una parodia, Il figlio di Iorio, che gli causerà una lunga vicenda giudiziaria. Nel frattempo, i figli avuti dalla moglie e dalla di lei sorella crescono e muovono i primi passi in teatro, non senza entrare in conflitto con il padre/zio.

CREDITI
Regia: Mario Martone / Sceneggiatura: Mario Martone, Ippolita di Majo / Montaggio: Jacopo Quadri / Fotografia: Renato Berta / Scenografia: Giancarlo Muselli, Carlo Rescigno /  Costumi: Ursula Patzak / Musiche non originali: selezione di brani della tradizione napoletana a cura di Mario Martone / Interpreti: Toni Servillo, Maria Nazionale, Cristiana Dell’Anna, Antonia Truppo, Eduardo Scarpetta, Roberto De Francesco, Lino Musella, Paolo Pierobon, Gianfelice Imparato, Iaia Forte, Roberto Caccioppoli, Greta Esposito, Nello Mascia / Paese, anno: Italia-Spagna, 2021 / Produzione: Indigo Film, Rai Cinema, Tornasol /  Distribuzione italiana: 01 Distribution  / Durata: 132 minuti

SUL WEB
Filmografia di Mario Martone
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – Il sito

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