A giusta distanza. Immaginare e ricordare la Shoah. Un libro di Enrico Donaggio e Diego Guzzi

enrico_donaggio-diego_guzzi-a_giusta_distanzaA giusta distanza è un libro scritto da due filosofi, ed è quindi un libro che fa pensare, ponendo diversi interrogativi e non limitandosi a esporre tesi. Il volume è il frutto di anni di lavoro e di diverse occasioni di confronto avute dai due autori (un docente e un dottore di ricerca) con studenti medi e universitari, per i quali può costituire un prezioso approfondimento. Così come si può rivelare un utile stimolo alla riflessione per chiunque si occupi di storia e di immagini, di cinema e di fotografia. Di chiunque di noi si trovi nella posizione dello spettatore.
Al centro di questo libro non vi è infatti solo il problema del male, ma anche quello di come rappresentarlo. Nel caso specifico, gli autori ci invitano a considerare il fatto che ormai ci si ritrova sempre più spesso a insegnare e studiare la storia della Shoah in assenza di testimoni diretti. Rimangono sì i documenti, da conservare, da leggere, da interpretare, da collegare tra loro. Ma rimangono soprattutto le rappresentazioni mediatiche, letterarie, fotografiche e cinematografiche, queste più che mai delicate da utilizzare eppure spesso le prime a cui si ricorre al momento di trattare la Shoah o in occasione del giorno della memoria. E Donaggio e Guzzi riescono a offrire al lettore numerosi spunti per riflettere sulla necessità di impiegare tali materiali con sguardo critico.
La memoria e le immagini si sostengono infatti a vicenda, ma l’immagine ha un potere sovrastante, e non sempre può essere accettata superficialmente senza essere problematizzata, e quindi il più possibile compresa: un lavoro che non tutti hanno la possibilità o la volontà di assolvere. Anche per questo, ogni capitolo della prima parte del libro, la più corposa, presenta e commenta dettagliatamente in apertura un’immagine, più o meno celebre, della Shoah. E altre immagini fotografiche sono incluse all’interno del volume, che in questo senso può rappresentare una lettura complementare a quella del più approfondito L’immagine della memoria – La Shoah tra cinema e fotografia di Maurizio G. De Bonis.

Prima di farci riflettere su come il cinema sia oggi il luogo più problematico di trasmissione della memoria della Shoah, gli autori invitano il lettore a soffermarsi su queste fotografie e su quanto evocano. Nella prima parte, partendo da un’immagine di tre anziani sopravvissuti al lager, si ricostruiscono alcuni fatti del sistema di annientamento e di sterminio messo in atto dei campi nazisti. Poi, un’istantanea dell’imputato introduce il caso Eichmann, il grande processo mediatico del 1961 e la sua cronaca firmata da Hannah Arendt, inviata speciale del “New Yorker”. A seguito di tale esperienza, Arendt rivedette la sua stessa teoria del nazismo come “male assoluto” (espressa ne Le origini del totalitarismo), nell’idea di una “banalità del male” che non sarebbe stata accettabile a ridosso della fine della guerra. La distanza modifica infatti lo sguardo.
Per molti spettatori non avvezzi a letture arendtiane tale teoria è stata divulgata nel documentario Uno specialista (1999) di Eyal Sivan in cui, scrivono Donaggio e Guzzi, si “ricostruisce il processo selezionando soltanto le immagini originali che confermano le tesi di Hannah Arendt. Ne esce un imputato distratto e indolente”, archetipo di quel concetto di “banalità del male” che certamente può essere una chiave interpretativa di molti degli orrori perpetrati dal nazismo, ma che per gli autori non andava forse “modellato sul suo volto”, essendo stato Eichmann prima un applicatore feroce della legge dei campi e poi un accusato che assunse questa maschera con una precisa strategia di difesa.
Grazie a questo riferimento cinematografico gli autori riescono a farci riflettere sui rischi dell’enfatizzazione della radicalità del male, della retorica dell’indicibilità dell’orrore della Shoah, e del rischio opposto che la teoria della banalità neutralizzi le nostre reazioni invece di farci restare sempre all’erta. Le ulteriori domande che Donaggio e Guzzi si pongono hanno precisamente a che fare coi modi in cui un’attenta “costruzione della memoria” possa farci “deporre la maschera dello spettatore” e portare nel futuro della storia alcuni dei significati profondi che un evento come la Shoah può testimoniare.

dachau-1945Ancora una volta i due fanno parlare le immagini fotografiche. Come quella archiviata alla voce “forced confrontation” la cui didascalia recita: “Dachau, Germania, 1945, soldati americani obbligano gli abitanti del posto a visitare il campo”. O come quelle scattate di nascosto nel campo da un membro del Sonderkommando di Birkenau, aiutato da componenti della resistenza polacca: quattro istantanee definite da Georges Didi-Huberman Immagini malgrado tutto, titolo di un suo saggio.
Poi gli autori ci dimostrano come il problema possa “essere proficuamente affrontato occupandosi di cinema. Un’arte sospetta – forse più di ogni altra – di produrre bieca merce di consumo. […] Proprio grazie ai film, tuttavia, l’opinione pubblica occidentale ha scoperto, in tempi e modi diversi, il dramma dei Lager”. Pur riconoscendo a opere quali Nuit et brouillard (Notte e nebbia, 1955) di Alain Resnais ma anche al serial statunitense Holocaust (1978), il merito d’aver sensibilizzato il pubblico mondiale al tema della Shoah, Donaggio e Guzzi non risparmiano critiche alle ricostruzioni di film come Schindler’s List (1993) o La vita è bella (1997) che lasciano lo spettatore nella sua passività.
Sostengono invece, a ragione, che il lavoro documentario e cinematografico di Claude Lanzmann sia l’unico ad aver saputo superare l’impasse di tali rappresentazioni “girando una pellicola che racconta lo sterminio in immagini, senza immagini dello sterminio. In Shoah non ricrea l’ambiente del campo, né utilizza foto d’archivio. Evoca il male estremo, senza mostrarlo, convinto che le camere a gas non si possono raffigurare. In questo senso, il genocidio risulterebbe irrappresentabile”.

Oltre a Shoah (1985), nel libro è ricordato anche un altro film di Lanzmann: si tratta del documentario-intervista intitolato Un vivant qui passe (1997), che ha per protagonista il dottor Maurice Rossel, la cui vicenda viene rievocata dagli autori proprio per dimostrare come la posizione dello spettatore possa essere delicata, e anche tragica. Rossel fu infatti a capo della delegazione della Croce Rossa che tra il 1943 e il 1944 visitò sia Auschwitz sia il campo modello di Theresienstadt, a cinquanta chilometri da Praga: qui i nazisti misero in piedi una complessa messa in scena con cui convinsero Rossel e i suoi accompagnatori dell’assoluta legalità di quanto accadeva nel campo.
Ma la farsa non finì lì. Dato il suo successo, dopo la partenza di Rossel, la propaganda nazista decise di realizzare un “documentario” intitolato Theresienstadt. Ein Dokumentarfilm aus dem jüdischen Siedlungsgebiet, poi conosciuto anche come Il Führer regala una città agli ebrei, dal titolo di una delle sequenze che furono diffuse e che sono sopravvissute (in tutto poco più di venti minuti). La regia del film fu affidata a Kurt Gerron, attore di origine ebraica, rinchiuso nel campo insieme a molti altri artisti, e noto in tutto il mondo per aver recitato a teatro nell’Opera da tre soldi di Brecht e al cinema nel ruolo del mago Kiepert ne L’angelo azzurro (1930). Il filmato mostrava come nel lager vi fossero uomini, donne e bambini in buona salute, nonché giardini, campi sportivi e una sala da concerto dove eseguire brani dal Requiem di Verdi. Finito il film, per il quale si era molto impegnato, Gerron venne inviato ad Auschwitz e qui ucciso con la moglie e altri compagni.
Si tratta senz’altro del più orrendo caso limite del cinema di propaganda nazista. Su cui si è tornati a riflettere, almeno in Germania, dopo la presentazione all’ultima Berlinale di Jud Süss – Film ohne Gewissen (2010) di Oskar Roehler, film che ricostruisce la lavorazione del Jud Süss (1940) di Veit Harlan, rappresentazione deformata in chiave antisemita della reale vicenda dell’ebreo Süss Oppenheimer. La pellicola è stata accompagnata a Berlino dalla critica positiva che Michelangelo Antonioni fece del film del 1940, dopo averlo visto alla Mostra di Venezia. Il che, oltre che come un’abile strategia promozionale, può rappresentare un’altra attestazione dell’ambiguo potere delle immagini.

Per corroborare le tesi espresse da Donaggio e Guzzi sulle mancanze del cinema commerciale, si può certamente citare il recente caso dell’evocazione di Dachau adoperata a scopi romanzeschi nell’ultimo film di Scorsese, Shutter Island (2010). In quest’opera, tratta dal romanzo di Dennis Lehane tradotto in Italia come L’isola della paura, il campo di sterminio è rimesso in scena come referente dell’“orrore massimo” e come trauma originario, causa di tutti i mali, del protagonista interpretato da Di Caprio. La cui discesa agli inferi ha però bisogno di un’ulteriore shock.
Per parlare della Shoah attraverso questo film si può anche lasciare perdere la pesantezza della trama. Così come il fatto che la scritta “Arbeit Macht Frei” su cui Di Caprio indugia all’ingresso del campo di Dachau è riprodotta sul modello di quella di Auschwitz e non su quella del lager tedesco, una svista che salta agli occhi e che è stata notata anche da Bernard-Henri Lévy in un articolo apparso sul “Corriere della Sera” dello scorso 3 marzo, molto critico sui modi in cui ormai il nazismo e la Shoah siano diventati un “self-service” di storie per scrittori e sceneggiatori, come dimostra anche l’ardito Inglorious Bastards (Bastardi senza gloria, 2009) di Quentin Tarantino.
Applicando a un’opera che in A giusta distanza non poteva ancora essere citata l’insegnamento che traiamo dal volume, bisogna rilevare soprattutto due elementi: come la messa in scena di Scorsese sia sbilanciata sulla ricerca di un effetto estetico della ricostruzione del campo: le polemiche suscitate dalla famosa scena di Kapò (1959) sono oggi davvero “distanti”; e come il peccato principale del personaggio di Di Caprio sia quello di aver dato la “risposta sbagliata” all’orrore, giustiziando senza appello diversi soldati tedeschi trovati nel campo che stava liberando. Il capitolo del libro di Donaggio e Guzzi intitolato Verità degli occhi si conclude infatti con le seguenti parole di Yehuda Bauer: “Appartengo a un popolo che ha dato al mondo i dieci comandamenti. Conveniamo sul fatto che ne servono altri tre, questi: tu non sarai l’aggressore, tu non sarai la vittima; e tu non accetterai mai, mai, di restare uno spettatore passivo”. Farsi a sua volta aggressore, non è chiaramente una soluzione positiva.

Come antidoto a una post-modernità che ci potrebbe vedere tutti (tele)spettatori (è una delle tesi, tra gli altri, del Naufragio con spettatore di Hans Blumenberg), la riflessione sulla Shoah deve quindi costituire un exemplum, un “principio d’azione per il presente”, secondo una definizione di Todorov, volto all’interesse collettivo della contemporaneità. Come scrivono Donaggio e Guzzi, la Shoah non deve essere solo rappresentata ma va “rivissuta muovendosi attraverso le immagini dei luoghi in cui è rimasta iscritta. Un atto di rammemorazione senza fine, non da parte di uno spettatore apatico o perduto, bensì di un testimone attivo”.
Ed è per questo che in rapporto a quell’evento vanno citate, come accade in A giusta distanza, le opere di un testimone come Primo Levi, ma anche quelle di Agota Kristof, e poi i film di Michael Haneke, o il meno elitario L’onda (2008) , e il dibattito suscitato dalle immagini di sevizie scattate nelle carceri di Abu Ghraib. In chiusura, ci permettiamo di aggiungere altri due titoli di film prodotti nell’ultimo anno che non vanno persi alla luce di queste considerazioni: l’apparentemente svagato Simon Konianski (2009), appena approdato nelle nostre sale, e L’arbre et la forêt (2010) di Olivier Ducastel, Jacques Martineau, la cui uscita in Italia non è ancora sicura ma che consigliamo a tutti gli spettatori interessati. In entrambe le pellicole si racconta come vi possa essere un futuro sereno solo ritornando con determiinazione sui fantasmi del passato.

©CultFrame 04/2010

TROVI IL LIBRO QUI:
A giusta distanza. Immaginare e ricordare la Shoah. Un libro di Enrico Donaggio e Diego Guzzi (Le gomene)


IMMAGINI

1 Copertina del libro A giusto distanza – Immaginare e ricordare la Shoah
2 Dachau, Germania, 1945. Soldati americani obbligano gli abitanti del posto a visitare il campo

CREDITI
Titolo: A giusta distanza. Immaginare e ricordare la Shoah / Autori: Enrico Donaggio, Diego Guzzi / Editore: l’Ancora del Mediterraneo, 2010 / Collana: Le Gomene / 160 pagine / 14,00 euro / ISBN: 9788883252617

LINK
CULTFRAME. L’immagine della memoria. La Shoah tra cinema e fotografia. Un libro di Maurizio G. De Bonis
CULTFRAME. L’immagine spezzata. Il cinema di Claude Lanzmann. Un libro di Ivelise Perniola

CULTFRAME. Mémoire des camps. Photographies des camps de concentration et d’extermination nazis (1933-1999). Un libro di Clément Chéroux

CULTFRAME. Il ghetto di Varsavia. Cento foto scattate da un soldato tedesco nel 1941. Un libro di Joe J. Heydecker

CULTFRAME. Schindler’s List. Il film di Steven Spieliberg in dvd
CULTFRAME. Scatti di Guerra. Dallo sbarco in Normandia a Berlino. Mostra di Lee Miller e Tony Vaccaro

CULTFRAME. The Art of Lee Miller. Una retrospettiva a Londra

Casa editrice l’ancora del mediterraneo

INDICE DEL LIBRO
Premessa
immaginare. Combinazioni letali / brutte bestie / nazisti, per caso / verità degli occhi /
ricordare. Passaggio di testimone / nodi alla gola / a memoria d’uomo

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