L’immagine della memoria | La Shoah tra cinema e fotografia ⋅ Un libro di Maurizio G. De Bonis

Negli ultimi anni si è verificato un fenomeno fino a qualche tempo fa quasi impensabile. Il cinema, macchina imprenditoriale dalle connotazioni popolari (ma pur sempre parte di un dispositivo industriale rigidamente regolamentato e basato sulle leggi del marketing), ha iniziato, con maggiore frequenza rispetto al passato, a diffondere nel mercato testi audiovisivi (lungometraggi di finzione e documentari) riguardanti la Shoah.

Film come Schindler’s List e La vita è bella hanno, secondo alcuni, risvegliato le coscienze e contribuito a mantenere viva la memoria della catastrofe che ha colpito l’Europa del XX secolo.

Certamente, questi lavori hanno provocato un dibattito internazionale e catturato l’attenzione del pubblico, della stampa e della critica, godendo di una visibilità mediatica altissima, tutto ciò mentre il sistema culturale internazionale dedicava sempre maggiore spazio all’argomento e procedeva a grandi passi alla “museizzazione istituzionalizzata” della Shoah.

Le ragioni di questa forte impennata del numero di pellicole dedicate alla Shoah possono essere comunque molteplici e vanno inquadrate nel contesto di un più articolato processo divulgativo che ha riguardato praticamente tutte le forme di espressione e comunicazione.

Una delle motivazioni principali è senza dubbio relativa all’azione del tempo che ha consentito lo sviluppo di un processo di sedimentazione storica e sociale favorevole all’incremento di idee e riflessioni da parte di cineasti, scrittori e artisti, i quali hanno potuto, in questo modo, confrontarsi con un evento di portata enorme, che ha tragicamente cambiato il volto del mondo occidentale nonché la struttura del pensiero contemporaneo.
Proprio a causa di questo processo di assestamento, e del successivo affioramento della memoria e del dolore, la produzione di materiale ha avuto un incremento sia nel campo della letteratura che in quello delle arti visive, in special modo nella fotografia e nel cinema.

Ed è di queste due discipline che ci occuperemo in questo libro, evidenziando eventuali punti di contatto e divergenze.

La prima questione da mettere in evidenza è che, a differenza del settore cinematografico, gli autori che si sono espressi nell’ambito della fotografia hanno generalmente esplorato questo insidioso territorio con atteggiamento più problematico e rigoroso rispetto ai cineasti.

In tal senso, gioca un ruolo fondamentale il fattore economico. I fotografi, infatti, operano in un campo che, pur con qualche eccezione, non genera movimenti ingenti di denaro. Scattare e stampare una fotografia, o anche allestire una mostra, ovviamente non costa quanto produrre un film. I mercati della fotografia e del cinema, dunque, non sono minimamente paragonabili in quanto a volume d’affari. Proprio a partire da tale presupposto è possibile constatare come le opere fotografiche incentrate sulla Shoah prendano vita da esigenze creative chiare e siano contraddistinte da una limpidezza concettuale di base più rigorosa e libera rispetto ai lungometraggi, specie quelli prodotti dalle major multinazionali.

Il cinema, infatti, risponde, sempre e comunque, a meccanismi di carattere commerciale. Ogni film, anche il più severo e antispettacolare, necessita di un corposo finanziamento di partenza che deve essere successivamente coperto grazie alla vendita del prodotto a un distributore, alla cessione dei diritti per i passaggi televisivi (per non parlare dei film concepiti per il piccolo schermo che sono per loro natura contenitori di pubblicità) o per la fruizione casalinga su supporto digitale.

Un’opera cinematografica sulla Shoah, quindi, si configura come oggetto del sistema commerciale globale. Tale condizione implica per il prodotto-film un’automatica e fisiologica mercificazione di massa, concetto quest’ultimo spesso confuso con quello più nobile di divulgazione culturale/popolare che risponde a principi completamente diversi.

La fotografia, invece, è una disciplina che, pur generando fenomeni divistici o di tendenza, è meno vincolata a meccanismi industriali/commerciali. L’elemento individuale, cioè il rapporto diretto ed esclusivo tra opera e artista (mentre il film è il frutto di un lavoro collettivo e fortemente frammentato, dal regista al produttore, fino all’ultimo tecnico), implica ancora oggi una sorta di responsabilità inequivocabile del soggetto creativo, di relazione intima tra sguardo autoriale e porzione di realtà rappresentata.
Un fotografo può ovviamente concepire un’immagine sulla Shoah come un prodotto da vendere ma ciò non comporta una mercificazione senza limiti, strategica, come nel caso dell’oggetto-film (magari di proprietà di una multinazionale dello spettacolo cinematografico), ma un rapporto diretto tra artista e compratore, a volte mediato da un gallerista o un agente, che esclude un progetto di carattere industriale su larghissima scala ma implica solo il riconoscimento del valore di un’opera. Certo, bisogna prendere in considerazione la questione della tiratura delle stampe fotografiche, ma l’ampiezza di tale produzione in serie non è in nessun caso paragonabile all’apparato produttivo-distributivo (e di marketing) dell’industria filmica.
È dunque doveroso tenere presente che, in relazione alla Shoah, la questione economica evidenzia una significativa problematica di carattere etico, non sempre tenuta nella giusta considerazione.

Partendo da questo presupposto, è possibile compiere una ricognizione critica in grado di avvicinarsi a tale materia in maniera lucida e obiettiva.

Il primo elemento da far risaltare è relativo a dati e numeri storicamente provati e che danno la misura dell’enormità degli accadimenti.

Durante la Seconda Guerra Mondiale furono uccisi nel cuore della colta Europa, per mano dei nazisti, sei milioni di ebrei europei. Un terrificante massacro attuato nei confronti di un popolo, quello ebraico appunto, che aveva già dovuto sopportare inaudite persecuzioni nei secoli precedenti. Milioni di individui (tra cui moltissimi bambini) cancellati dalla faccia della Terra, intere famiglie sterminate, esistenze annullate in un turbine razzistico delirante, unico nella storia dell’umanità, causato da un generalizzato e patologico atteggiamento antisemita e accompagnato dal colpevole silenzio della Chiesa e dalla mostruosa indifferenza delle popolazioni europee.

Tale trauma ha ovviamente lasciato dei segni indelebili nella società europea, e occidentale in genere. Era, dunque, prevedibile che il cinema e la fotografia tentassero di rappresentare questo dramma, che lo utilizzassero per raccontare storie, riportare alla luce vicende, testimoniare atrocità.

Ma è proprio nell’ambito di questa predisposizione che si nascondono dei pericoli non indifferenti, da non sottovalutare.
Il più importante fattore da mettere a fuoco riguarda proprio il tema della memoria, tema relativo al più ampio sistema della cultura di tipo istituzionale.

Nell’ambito del fenomeno che abbiamo prima definito della “museizzazione” si è sviluppata, a nostro avviso, una propensione a frenare l’emersione della memoria a causa della rigidità della strutturazione espositiva. Se da una parte questo processo risponde a un’esigenza importantissima di carattere sociale ed educativo, dall’altra può sfociare in una sorta di riduttiva estetizzazione, di pietrificazione del dolore, con il conseguente negativo effetto di generare una fruizione automatica, scontata, per certi versi controproducente.
A differenza della catalogazione museale, discipline come il cinema e la fotografia possono essere invece in grado, per la loro natura linguistica e comunicativa, di impiantare con facilità questo seme nelle giovani generazioni.
Per fare ciò, però, è necessario che gli autori abbiano ben presente la finalità della loro azione creativa e non dimentichino di mantenere vivo il senso di rispetto che bisogna nutrire nei confronti dei sopravvissuti e dei familiari degli ex deportati, i quali hanno subito direttamente le conseguenze fisiche e psicologiche della Shoah. Questo senso di rispetto in qualche frangente ha finito per vaporizzarsi all’interno di un cinico vortice mediatico/economico.

Anche per evitare di cadere nella banale esaltazione di questo dannoso vortice, il percorso di questo libro non è stato concepito in base a una catalogazione schematica di tutte le produzioni visuali dedicate alla Shoah.
L’intenzione non era quella di stilare un dizionario esaustivo, né quella di costruire un discorso di carattere storicistico, e ancor meno di partecipare a questa discutibile spirale comunicativa, quanto piuttosto quella di fornire strumenti validi per interpretare questa complicata materia, di dare spunti di riflessione che servano ad alimentare il dibattito culturale.

E’ stata dunque effettuata, per quel che riguarda la parte cinematografica, una selezione che ha comportato l’accantonamento di opere, pur dignitose e inerenti all’argomento, come Il giardino dei Finzi Contini (Vittorio De Sica), Il diario di Anna Frank (George Stevens), La tregua (Francesco Rosi), L’uomo del banco dei pegni (Sidney Lumet), La settima stanza (Marta Meszaros), Europa Europa (Agnieszka Holland). Tale accantonamento però non sottintende un giudizio sui film esclusi, meno che mai un giudizio negativo; è solo il risultato di un articolato lavoro di identificazione di aree analitiche e interpretative.
Il primo problema metodologico affrontato, comunque, ha riguardato la distinzione tra le pellicole incentrate sul più ampio tema dell’antisemitismo da quelle che invece si occupano in maniera preponderante del delirio nazista, dei campi di sterminio, della Shoah e delle conseguenze psicologiche che il genocidio del popolo ebraico ha determinato sugli individui che sono stati toccati da questa catastrofe.
Si è poi proceduto all’individuazione di settori di riflessione in grado di mettere in stretta comunicazione tre elementi ricorrenti: rappresentazione dei campi di sterminio, memoria della Shoah, coscienza civile. Per tale motivo, nel nostro percorso figurano anche lungometraggi il cui collegamento con l’argomento Shoah è da ricercare in uno strato profondo del senso, piuttosto che nella ricostruzione filologica o realistica degli accadimenti.

È stata inoltre effettuata una scelta funzionale ai percorsi individuati, tutto ciò nel tentativo di evitare una banale catalogazione. Sono stati poi messi a confronto diversi film attraverso osservazioni relative ai contenuti che suggeriscono contrapposizioni e similitudini e che intendono chiarire la differenza netta che sussiste tra elaborazione artistica della memoria e utilizzazione superficiale e strumentale del dolore.
Distinguere lo sforzo sincero di approfondimento di alcuni artisti da quello che può essere considerato un uso esteriore dell’argomento Shoah è indispensabile per rapportarsi alla materia.Per ciò che concerne la fotografia sono stati identificati alcuni periodi di produzione di immagini sulla Shoah.
Nella fase finale della Seconda Guerra Mondiale sono state scattate moltissime immagini dei campi di sterminio da parte di quei fotografi che erano giunti in Europa al seguito delle truppe alleate.

Successivamente è iniziato il lento lavoro di rielaborazione della memoria in cui, ovviamente, la raffigurazione del dolore è diventata oggetto di studi storici e solo recentemente stimolo creativo per una ricerca espressiva metaforica legata direttamente agli spazi fisici dei campi di sterminio.

Ma la questione della relazione tra fotografia e Shoah genera necessariamente una riflessione sul ruolo dell’immagine nel mantenimento della memoria.

La produzione di fotografie all’interno dei campi di sterminio fu enorme. Una grandissima quantità di materiale fu però preventivamente eliminata (non tutta) dagli stessi nazisti. Sul materiale superstite molti addetti ai lavori si sono interrogati, cercando di comprendere la possibile e corretta utilizzazione di tali immagini.
Ebbene, la Shoah è stata una tragedia, comprovata da innumerevoli documenti storici e testimonianze dirette. Ma, gli scatti realizzati all’epoca dello sterminio giocano un ruolo per certi versi quasi secondario rispetto alla contestualizzazione storica del genocidio del popolo ebraico.

Molti studiosi, oltretutto, hanno fatto notare come il materiale rintracciato dopo la fine della guerra sia stato in alcuni casi usato in maniera inappropriata. Il problema dell’esattezza delle didascalie, ad esempio, ha impegnato molti esperti, i quali hanno rilevato non poche approssimazioni. Le polemiche che sono seguite a queste “pignolerie filologiche” vanno però circoscritte al territorio della ricerca storica, poiché queste riproduzioni non aggiungono nulla all’orrore e all’innegabile e sconvolgente realtà dei fatti.
Altra questione invece, e ben più significativa sotto il profilo sociale e culturale, è il rapporto tra le arti visive tecnologiche (fotografia e cinema) e la Shoah, dagli anni successivi la liberazione dei campi di sterminio fino ai giorni nostri.

È proprio l’analisi di questo arco temporale che riserva le problematiche più insidiose e che impone allo studioso uno sforzo che vada al di là della semplice registrazione cronologica di ciò che è stato fatto. Occorre invece stimolare ulteriori riflessioni e affermare un principio chiaro: non tutto ciò che viene realizzato sulla Shoah è di per sé degno di nota. Un brutto film, un’immagine sciatta o banalmente estetizzante, non aggiungono nulla all’argomento, lo rendono solo più visibile in un contesto commerciale.
Ritornando al discorso su fotografia e Shoah sembra necessario che l’analisi non venga limitata al piano della testimonianza e prova documentale.

Il genocidio del popolo ebraico per essere mantenuto vivo nella memoria collettiva non ha bisogno di prove fotografiche e ricostruzioni ripetitive. La lucida follia della “soluzione finale” è infatti indiscutibile, è un’assoluta certezza storica che continua a vivere grazie all’opera meritoria dei sopravvissuti, che ancora oggi hanno la forza di parlare, degli storici che continuano a studiare documenti e produrre testi sull’argomento e di tutte le giuste iniziative istituzionali pubbliche create, appunto, per non dimenticare e per alimentare una coscienza civile non sempre sensibile a una simile tematica.
Così, considerare agli inizi del XXI secolo le prove fotografiche fondamentali per la documentazione della Shoah è un principio subdolamente ambiguo, poiché non sussiste alcun bisogno di accertamenti visivi per dimostrare, o confermare, il reale svolgimento di un massacro così spaventoso. Sostenere che sia importante esibire delle immagini, magari scoperte da poco, cela una posizione intellettuale pericolosa poiché tale atteggiamento implica l’inquietante accettazione di un confronto dialettico con talune agghiaccianti tendenze negazionistiche, che stanno purtroppo moltiplicandosi, e che non sono frutto solo di farneticazioni di estremisti ma anche, addirittura, elaborazioni politiche ufficiali di Stati, come l’Iran, membri effettivi dell’ONU.

Se esistono ancora oggi istituzioni internazionali che cavalcano il negazionismo come arma politica non è producendo nuove e più sconvolgenti prove fotografiche dei campi di sterminio che si riuscirà a convincere i governanti di questi paesi a cambiare le loro inaccettabili posizioni, poiché quelle immagini sono già note a tutti, da almeno sei decenni.

Ed allora, per quel che riguarda il campo delle arti visive, sembra più significativo e utile, anche a livello sociale, procedere all’estrapolazione e alla decodificazione dalla massa di informazioni in nostro possesso di quegli elementi che possono contribuire ad alimentare il dibattito internazionale con equilibrio e con il necessario rispetto nei confronti di chi ha subito direttamente e indirettamente le atroci conseguenze della Shoah.

La questione del negazionismo, inoltre, non è purtroppo estranea alla società nella quale noi viviamo ed è strettamente connessa alla formazione culturale delle giovani generazioni e degli insegnanti che sono chiamati a mettere in pratica tale formazione. Ciò che succede sugli spalti degli stadi italiani, con la squallida esibizione di immondi striscioni che fanno riferimento ai “forni” e ai simboli del nazismo, è indicativo rispetto alla spaventosa ignoranza che caratterizza le giovani generazioni del nostro paese, ignoranza che non può essere sconfitta solo attraverso le visite guidate ai campi di sterminio o ai musei dedicati alla Shoah, ma grazie ad un’opera continuativa e strutturale in ambito scolastico (dando il giusto spazio a tale argomento nei programmi di studio, favorendo l’incontro tra studenti e sopravvissuti e stimolando la riflessione interiore degli studenti in modo sistematico).

Se non si procede ad un’accurata azione di sensibilizzazione didattica, se non si insiste con forza nella stigmatizzazione dell’antisemitismo, sarà molto difficile formare i cittadini del futuro ed educarli al rispetto dell’altro, al dialogo, al concetto di democrazia e, di conseguenza, all’attenzione nei riguardi della memoria storica.

Introduzione al libro “L’immagine della memoria – La Shoah tra cinema e fotografia” (Onyx Edizioni)

© Maurizio G. De Bonis / ©Onyx Edizioni
Per gentile concessione dell’editore

CultFrame 11/2007

CREDITI
L’immagine della memoria – La Shoah tra cinema e fotografia / Autore: Maurizio G. De Bonis / Editore: Onyx Edizioni, Roma / Collana: Frames / 186 pagine / 20,00 euro / ISBN: 8890103868

INDICE DEL LIBRO

 Prefazione di Aldo Pavia / INTRODUZIONE

  1. CINEMA, ETICA, SHOAH, KAPO, LA VITA E’ BELLA, RAIN DE VIE, SCHINDLER’S LIST, BLACK BOOK
  2. SHOAH E IDENTITA’ EBRAICA

III. IL CASO ROMAN POLANSKI

  1. SHOAH E COSCIENZA CIVILE
    1. La rosa bianca / 2. Music Box / 3. Amen / 4. Rosenstrasse / 5. My Father
  2. SHOAH, VITTIME E CARNEFICI
  3. LA SHOAH E L’INFANZIA NEGATA

VII. SHOAH DI CLAUDE LANZMANN, NOTTE E NEBBIA DI ALAIN RESNAIS
1. Shoah / 2. Notte e nebbia

VIII. DOCUMENTARI, TRA INNOVAZIONE, DIVULGAZIONE E MEMORIA
1. Belzec / 2. Gli ultimi giorni / 3. Broken Silence / 4. Memoria / 5. Uno specialista – Ritratto di un criminale moderno / 6. The Last Witness e La strada di Levi / 7. I registi americani e la liberazione dei campi

  1. LA DOCUMENTAZIONE STORICA, LE IMMAGINI DEI GHETTI EBRAICI E DEDI LAGER
    1. Le immagini realizzate dai nazisti / 2. La fotografia dentro i ghetti ebraici
  2. LA LIBERAZIONE DEI CAMPI E IL RACCONTO DEI FOTOGRAFI
    1. Margaret Bourke-White / 2. Lee Miller / 3. Eric Schwab / 4. Riflessione conclusiva: la questione della scelta
  3. LA SHOAH NELLO SGUARDO DEi FOTOGRAFI CONTEMPORANEI
    1. Michael Kenna / 2. Simcha Shirman / 3. Naomi Tereza Salmon / 4. Christian Boltanski / 5. Shimon Attie

BIBLIOGRAFIA / FILMOGRAFIA RAGIONATA

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