Immagini, gesti, parole⋅Il Job Film Days 2023 e la ‘filmabilità’ del lavoro al cinema

Il posto – regia di Mattia Colombo e Gianluca Matarrese (2022)

Recentemente, la Rai ha deciso di omaggiare Ken Loach proponendo sulla piattaforma Raiplay una parte cospicua della sua filmografia col bizzarro titolo Bread and Brexit. Se dagli anni Sessanta a oggi il regista britannico e i suoi sceneggiatori, negli ultimi tempi Paul Laverty, hanno saputo interrogare in molti modi diversi la ‘filmabilità’ del sentimento di appartenere a una classe, e della presenza o assenza di solidarietà tra subalterni, il mondo del lavoro in mutazione continua è un soggetto al centro di così tanti film, documentari e non, che esistono ormai numerosi festival dedicati al cinema che tenta di raccontarlo. In Italia i principali sono il Working Title Film Festival di Vicenza e il Job Film Days di Torino, sostenuto dal Museo Nazionale del Cinema, che ha appena concluso la sua quarta edizione. Ed è proprio sul crinale tra visibile/invisibile che si gioca, come in ambito fotografico, la possibilità di rappresentare, da un lato, ambienti e pratiche non sempre accessibili a chiunque, e dall’altro, meccanismi di funzionamento dell’economia e di riproduzione di rapporti di potere, di alienazione ma anche di orgoglio individuale e di classe che non è mai facile cogliere e raccontare in immagini. 

Invitato a Torino per Job Film Days 2023, Paolo Mereghetti ha presentato una lunga carrellata di estratti di film che nella storia del cinema hanno cercato di narrare tutto ciò partendo da Tempi moderni (1936) di Chaplin, capolavoro perché “fa scaturire i concetti dalle immagini, e non viceversa” (così nel Dizionario dello stesso Mereghetti). Nell’incipit del film, dopo un cartello che annuncia come stiamo per assistere alla storia di quell’umanità che è sempre “in lotta per la ricerca della felicità” le prime scene sono quelle di un orologio che segna inesorabilmente le ore, di un gregge di pecore con una nera al centro e poi di una massa di operai che si reca in fabbrica. Tutti i temi e i motivi del film sono già posti, non servono commenti ulteriori. Mereghetti, che tra gli altri ha mostrato anche un estratto de Il posto (1961) di Ermanno Olmi, in quanto presidente della Giuria principale del festival ha poi premiato il lungometraggio omonimo, sull’analogo sempreverde tema della ricerca del posto fisso, realizzato dai registi Gianluca Matarrese e Mattia Colombo prima e durante la pandemia per raccontare i ‘viaggi della speranza’ che ogni mese migliaia di infermieri del Sud Italia affrontano per sostenere un concorso nel Nord del paese. Un fenomeno a tal punto pervasivo che uno di loro ha creato una linea di bus notturni diretti alle sedi degli esami. Meno personale di altre opere di Matarrese, regista torinese di stanza a Parigi, il cui esordio Fuori tutto (2019) narrava le vicissitudini dell’attività commerciale di famiglia, il documentario offre comunque uno spaccato di un paese diseguale e di una generazione di giovani tutt’altro che immobile e senza sogni come talvolta la si dipinge.

Il Posto – Regia di Mattia Colombo e Gianluca Matarrese (2022)

 

Un altro premio (per il miglior film sulle tematiche inerenti la salute e la sicurezza sul lavoro) è stato assegnato a Life is a game (Italia, 2023, 60’) di Luca Quagliato e Laura Carrer, filmmaker cui è capitato di lavorare come rider e giornalista autrice d’inchieste sul tema per Irpimedia, ben coadiuvati dal montatore Guglielmo Trupia. Se all’operaio Charlot il taylorismo imponeva di avvitare bulloni, non facendolo più smettere di avvitare ogni cosa anche lontano dalla catena di montaggio, in questo documentario un fattorino di oggi racconta di essere sobbalzato e avere afferrato il proprio telefono alla sola traccia mnestica della suoneria di un ordine ricevuto dall’app per cui lavora, mentre era però in un ufficio a rilasciare un’intervista e non in strada in bici. Girato nelle ore notturne per le strade di sei città europee, ricreando una sorta di agorà quasi mai possibile nella realtà atomizzata del lavoro contemporaneo, il film assembla tredici incontri con riders di età e provenienze differenti. I loro volti molto spesso invisibili, malgrado con le loro silhouettes punteggino le nostre metropoli, sono significativamente mostrati in primissimo piano senza far vedere le divise o i copricapi che spesso ne celano le fattezze. Alle conversazioni si intervalla poi la storia di Emma, personaggio animato di finzione, fattorina sempre in sella per rincorrere il lavoro, la paga.

È però con le parole raccolte che Quagliato e Carrer cercano in primis di ragionare sulle contraddizioni proprie di un lavoro che può presentarsi come freelance (un rider francofono mette in rilievo il “coté romantique” da “chevalier” o “motard”, un po’ ribelle, del suo mestiere), non dipendendo da un capo in carne e ossa bensì dalle piattaforme del food delivery con i loro algoritmi misteriosi. A proposito dell’immaginario che può nascondere le condizioni materiali di un mestiere pericoloso e sottopagato, un italiano che consegna cibo in scooter racconta il dialogo del figlio bambino con un’insegnante: “Che lavoro fa il papà? Mio papà corre in moto”; con tutta l’epica del ‘campione’ solitario e il fascino che ne può derivare. Al pari del padre operaio della voce narrante nel romanzo autobiografico Il nemico (2009) di Emanuele Tonon che si reca al lavoro su di un motorino Benelli cavalcando “come fosse in un western” con “tanti altri operai-cowboy […] in groppa a destrieri morenti, scarburati, ingolfati”; o del padre di Alberto Prunetti ritratto in Amianto (2012, appena tornato in libreria in una nuova edizione edita da Feltrinelli) come un “babbo bionico”, per la sua maschera da saldatore ma anche per le protesi cui quel lavoro usurante presto lo costringe a far ricorso, un “metalcowboy” in tuta blu con continui rimandi all’universo cinematografico di Sergio Leone.

Life is a game – Regia Luca Quagliato e Laura Carrer (2023)

Oltre alle parole, si diceva, i gesti sono un elemento nevralgico della rappresentabilità delle vite umane al lavoro, come dimostra uno dei film recenti più interessanti sul tema, Fondata sul lavoro (2019) di Agnese Cornelio (vincitore qualche anno fa a Torino di una menzione al Premio Paolo Gobetti del concorso Filmare la storia). Il documentario riassume, scandendola con articoli della Costituzione italiana, la parabola storica della cultura del lavoro nel Secondo Novecento attraverso l’incontro con donne e uomini di generazioni diverse che hanno lasciato l’Italia per altri paesi europei. Tra le varie tappe delle loro biografie (formazione, assunzione, licenziamento o pensione) Cornelio interroga quel che resta del lavoro che ha segnato le singole esistenze creando un set teatral-televisivo e chiedendo a ciascun testimone di rimettere in scena di fronte alla cinepresa proprio i gesti compiuti nell’ambito della sua professione.

E i gesti molto spesso si trasmettono per imitazione, anche attraverso il cinema o i mezzi di comunicazione. Ne troviamo testimonianza in altri film presentati all’ultima edizione dei Job Film Days, persino nell’Orso d’oro della Berlinale 2023, Sur l’Adamant di Nicolas Philibert. Con démarche wisemaniana (si pensi a Titicut Follies ma più in generale al suo cinema dedicato all’esplorazione di luoghi e comunità, al funzionamento di piccole e grandi istituzioni), il regista francese ha filmato ospiti e gestori di un particolare servizio diurno per la salute mentale collocato in un battello (l’Adamant) ormeggiato sulla Senna nel centro di Parigi. La citazione posta in apertura del film di Fernand Deligny, padre della pedagogia francese, recita che “Il faut des trous pour que les images viennent se poser” ma, come accennato, le persone che frequentano quel centro vivono un disagio psichico accompagnato da spiccate doti artistiche, sono appassionati di cinema (un cineclub è da dieci anni aperto sulla nave) di disegno, di danza e di musica. Varie sono le canzoni interpretate dai protagonisti con cui si distende la narrazione (una dal titolo cinefilo di “Nessuno è perfetto”, poi la valvola di sfogo rock “La bomba umana”…) e a cui contribuisce un artista di una certa notorietà, Frédéric Prieur, che canta la storia di Jim Morrison, reveur all’UCLA che “voleva fare cinema come Agnès Varda” (dalla canzone Just open the Doors), che crede lui e suo fratello una sorta di reincarnazione di Vincent e Théo Van Gogh, rispecchiandosi anche nei due fratelli di Paris, Texas (1984) per cui Wenders avrebbe in qualche modo trasposto la loro vera vita… quando il cinema può tramutarsi in ossessione.

Una sigaretta dietro l’altra, fumata con gesti estroversi come al cinema (o come ha visto fare ad altri uomini che l’hanno visto fare al cinema o, forse, nei video musicali su youtube), è invece sempre tra le dita del giovanissimo protagonista del documentario Or de Vie di Boubakar Sangaré, regista maliano che ha filmato – dopo averci lavorato da ragazzo – la quotidianità di chi vive accampato e scava notte e giorno in una miniera d’oro nel Sud del Burkina Faso. Si tratta di molti adolescenti che lavorano in condizioni insalubri e insicure calandosi in pozzi profondi centinaia di metri sottoterra e cercando pepite a colpi di piccone e nude mani. Il film, presentato in una selezione di opere provenienti dall’Africa Subsahariana curata da Daniela Ricci e Giuseppe Gariazzo per Job Film Days, è inoltre un esempio di come lo sguardo indagatore del cinema resti un mezzo privilegiato per mostrare al pubblico gli ambienti di lavoro più reconditi, talvolta occultati per non ingenerare troppi sensi di colpa nelle nostre società. Ne è la prova anche un lungo di finzione visto a suo tempo alla Berlinale e al Torino Film Festival, ma riproposto nell’ambito del Job Film Days grazie a un’iniziativa dell’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, quale Deadweight (2016) di Axel Koenzen. Il film mostra pochissimo, grazie a una serie di ellissi ben costruite, dei momenti più tragici che narra ispirandosi a un fatto realmente accaduto, ma riesce a raccontare assai bene la pratica del self-handling che ingenera di frequente conflitti tra marinai e portuali attorno alle numerose navi-container che solcano i nostri mari trasportando merci di ogni tipo: le operazioni con cui queste debbono essere issate e fissate sulle navi sono infatti prerogativa di chi lavora nei porti, con esperienza specifica, ma sempre più spesso le compagnie chiedono agli equipaggi di svolgerle loro per risparmiare tempo. Gli incidenti sono così messi nel conto e le responsabilità individuali si moltiplicano in catene non semplici da identificare, nei porti come nelle nostre strade dove food delivery e consegne di Amazon e altri negozi online costringono migliaia e migliaia di persone a corse continue per soddisfare i clienti, cioè noi. Anche questo lo ha raccontato con grande efficacia narrativa uno degli ultimi film di Loach, Sorry we missed you (2020).

© CultFrame 10/2023

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