Ricerca storica e perizia tecnica in Manodopera. Un film di Alain Ughetto.

Dopo la morte del padre, avvenuta nel 2009, l’esordio al lungometraggio d’animazione con Jasmine (2013), e quasi dieci anni di lavoro continuativo (rallentato dalla pandemia), nel 2022 Alain Ughetto ha concluso quello che può ben definirsi il film di una vita: ciò è vero non solo perché Manodopera narra l’epopea di due generazioni di avi del regista, francese, il cui nonno era nativo di Pinasca e cresciuto nella frazione Ughettera dove “si chiamavano tutti Ughetto”, ai piedi del Monviso; ma anche per l’eccezionale cura nella ricerca storica e nella realizzazione tecnica in stop motion che ha richiesto tanto lavoro da impegnare otto diversi studios della cittadina di Rennes e a Beaumont-lès-Valence, tra preparazione e riprese.

Difatti, la storia che scorre fluidamente sullo schermo, sostenuta da un’invenzione visiva dietro l’altra e da una continua altalena emotiva, ha alla base tanto una ricerca privata sulle memorie di zii e cugini ancora in vita, quanto un lavoro di ricostruzione storica che esibisce, appena celata da una sceneggiatura concepita per restituire tutta l’autenticità di un racconto in prima persona, la sua fonte principale: Il mondo dei vinti (Einaudi, 1977) di Nuto Revelli.

Il racconto inizia alla prima persona con la voce del regista di cui, in un universo di pupazzi e plastilina, appaiono mani e piedi in carne e ossa; le mani, soprattutto, personaggi veri e propri del film che interagiscono con quelli dei suoi nonni e del padre (bambino) mentre ne ripercorriamo tutta la vita. Una trasmissione “da mani a mani”, dal nonno e dal padre muratori e manovali, dalla nonna inesausta produttrice di gnocchi e polenta alla spiccata manualità del nipote che fin da ragazzo era un appassionato costruttore di mondi di cartone e colla vinilica malgrado la doppia e quasi contraddittoria ingiunzione impartitagli dei genitori: “l’arte non è cosa per noi!”, “da grande dovrai lavorare con la testa!”. In questa miracolosa riappropriazione di un passato di miseria che dissolve ogni nevrosi da transfuga di classe, Ughetto porta in scena fin dai primi minuti del film quanto è riuscito a recuperare dalle terre d’origine della sua famiglia che ha visitato a questo scopo: della carbonella con cui costruire parte della scenografia, delle castagne che in quelle zone erano parte fondamentale della dieta e dell’economia locale, dei broccoli che diventano gli alberi di un bosco alpino, etc.

Quando però il personaggio della nonna Cesira racconta che “la terra era tutto”, e aggiunge “eravamo affamati di terra”, usa le medesime espressioni di due interviste riunite nell’eccezionale raccolta di testimonianze di Revelli. Da questo volume che costruisce sulle biografie individuali un autoritratto collettivo di una generazione provengono, alla lettera, alcune delle immagini più forti della rievocazione degli stenti patiti tra Otto e Novecento da quelle famiglie che, vivendo a ridosso dell’arco alpino, lato italiano, varcavano di continuo la frontiera per andarsi a sfamare in Francia o in Svizzera lavorando, come il nonno Luigi, nella costruzione della strada e della galleria ferroviaria del Sempione o del tunnel detto Buco di Viso alle Traversette.

Qualche esempio: quando nel film si sente dire che la casa avita è “un po’ a sinistra del Monviso” chi ha letto attentamente Revelli potrebbe ritrovare identiche parole in una testimonianza di Vincenzo Cucchietti da Stroppo; quando si ricorda che i nonni a tavola dicevano che la polenta va mangiata bagnandola nel latte non col cucchiaio ma con la forchetta, “per far durare di più il latte”, che costava, torna alla mente lo stesso ricordo tramandato dalla contadina Margherita Allietta (Trinità di Demonte) e da Michele Costamagna (Bene Vagienna); quando si parla poi del mercato di Barcelonnette, cittadina della Valle dell’Ubaye dove ogni giorno centinaia di fanciulli e fanciulle cercavano di farsi assumere come domestici, garzoni o nelle fattorie della regione, non si possono che ricordare alcuni altri passi drammatici di quel libro: “Io mi sono affittato la prima volta in Francia, a Barcellonetta, quando avevo 13 anni” (testimonianza di Giuseppe Bruno da Chiotti di Valloriate); “c’erano sempre trecento o quattrocento bambini e bambine che si affittavano, alle dieci del mattino il mercato era già deserto, tutti affittati” (testimonianza di Pietro Bruno).

In un destino comune a migliaia di italiani arrivano quindi la guerra coloniale in Libia affrontata come pezzenti tra pidocchi e sabbia nelle gamelle e nelle marmitte, altroché “Tripoli bel suol d’amore”! (così nel film e in molte interviste di Revelli), la grande guerra, l’epidemia di Spagnola e il fascismo: sarebbe bastato molto di meno a far espatriare definitivamente gli Ughetto. Tutte quelle tragedie e gli aneddoti che ne derivarono segnano ancora le mitologie famigliari di chi “ce l’ha fatta”, dopo tante sofferenze, come si legge per esempio nel recentemente tradotto Dalla fame al «paradiso». Memorie di noi emigranti dalla Valle d’Aosta alla Francia (Fusta editore, 2022) di Maryse Vuillermet, che avrebbe potuto costituire un’altra fonte perfetta per commentare l’immaginifica animazione con cui il regista ha ripercorso lo sradicamento dei suoi nonni dall’Italia.

Va tuttavia sottolineato come Manodopera – il cui titolo originale sarebbe l’ancor più brutale Interdit aux chiens et aux Italiens – procede con un ritmo lieve e vivace tra nuvole che sono batuffoli di cotone, zucche tramutate in case e zollette di zucchero per mattoni. L’autore ha esplicitamente citato il cinema di Ettore Scola come modello di leggerezza e stile cui si è ispirato. Convincendo poi, ed era tutt’altro che scontato, il compositore Nicola Piovani a cimentarsi nella colonna sonora di quello che dovrebbe essere il suo primo film animato e l’attrice di origini italiane Ariane Ascaride a dare voce al personaggio della nonna.

Dopo il premio della Giuria al Festival International du Film d’Animation di Annecy, l’invito a inaugurare l’edizione n. 75 del Festival di Locarno e un passaggio al Torino Film Festival (con altri premi), sorprende scoprire che un film così articolato che riesce commuovere ogni pubblico che l’incontri non abbia trovato il sostegno o il pre-acquisto di nessuna emittente francese mentre le distribuzioni italiane paiono attendere le assegnazioni degli EFA (10 dicembre 2022), gli Oscar europei, o persino le selezioni degli Oscar americani, per darsi disponibili: sarà mica che di “manodopera”, quella italiana che ha edificato mezzo mondo e quella del proletariato odierno di ogni provenienza, non si vuol sentire parlare? Alain Ughetto, che come dicevano di suo padre “ha un’intera cassetta degli attrezzi al posto delle mani”, ha scelto invece benissimo il titolo italiano e internazionale del suo film, un “capolavoro” fatto con le mani e con la testa al pari di quelli richiesti agli aspiranti operai per essere assunti. Un tempo come oggi.

© CultFrame 12/2022

TRAMA

Il regista Alain, non conoscendola in dettaglio, si fa aiutare dalle memorie della nonna Cesira per ricostruire la storia di come lei e il marito Luigi sono emigrati dal Piemonte alla Francia, circa un secolo fa, in cerca di una vita migliore.

CREDITI
Titolo originale: Interdit aux chiens et aux Italiens / Regia: Alain Ughetto / Sceneggiatura: Alain Ughetto, Alexis Galmot, Anne Paschetta / Fotografia: Fabien Drouet, Sara Sponga / Musica: Nicola Piovani / Interpreti: con le voci di Ariane Ascaride e Alain Ughetto / Paese, anno: Francia – Italia – Belgio – Svizzera – Portogallo, 2022 / Produzione: Les Films du Tambour de Soie, Graffiti Film, Vivement lundi!, Foliascope, Lux Fugit Film, Nadasdy Film, Occidental Filmes/  Distribuzione internazionale:  Indie Sales / Durata: 70 minuti

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