52° Visions du Réel 2021 o del cinema come collante del reale

Frame tratto da “1970” di Tomasz Wolsk

Dopo che lo stop alle proiezioni in presenza era arrivato lo scorso anno a ridosso dell’inaugurazione, nel 2021 Visions du Réel ha fatto di tutto per lanciare un segnale forte di ripresa riaprendo a pubblico e accreditati le sue sale nella seconda parte del festival, non appena il governo svizzero lo ha reso possibile. Ma la manifestazione si era comunque dovuta avviare su piattaforma, squadernando oltre 500 titoli, tra i 143 delle sezioni ufficiali e il mercato, a chi si è voluto connettere per immergersi in questa variegata vetrina della produzione internazionale di film documentari, segnata, più di altre forme d’espressione, dall’anno pandemico.

Tra gli incontri e gli omaggi alla regista salvadoregna, ma diventata messicana, Tatiana Huezo e a Pietro Marcello e il Prix d’honneur tributato allo scrittore Emmanuel Carrère, che ha diretto anche un intenso film di non-finzione quale Retour à Kotelnitch (2003), il Concorso internazionale ha visto la partecipazione di tredici opere. Il primo premio è andato a Faya Dayi dell’esordiente Jessica Beshir, passato in anteprima al Sundance, che ha filmato in bianco e nero la comunità di un villaggio etiope la cui economia si basa sulla coltivazione del khat, pianta che il vecchio Sufi usa nei suoi riti ma che è sempre più venduta e consumata come droga. Il Premio speciale della Giuria è stato invece assegnato a 1970 di Tomasz Wolski ex aequo con Les Enfants terribles di Ahmet Necdet Cupur. Nel primo caso, gli scioperi repressi realmente nella Polonia ancora sovietizzata del 1970, con un bilancio di quarantadue vittime accertate, possono ricordare quelli narrati nell’ultimo film di Andrei Konchalovsky, Dorogie Tovarischi! (Cari compagni!), visto a Venezia 2020. Ma Wolski rimette in scena i fatti alternando filmati di repertorio e figure di plastilina animate, con una soluzione simile a quella escogitata da Rithy Panh nel suo L’immagine mancante (2013) per mostrare in qualche modo i crimini dei Khmer Rossi cambogiani.

Frame tratto da “Faya Dayi” di Jessica Beshir

Ahmet Necdet Cupur ha messo invece al centro di Les Enfants terribles i conflitti famigliari vissuti da lui stesso nella provincia turca in cui è nato, e in particolare lo scontro tra il padre, suo fratello e sua sorella (colpevole di desiderare l’autonomia economica e una vita lontano dalla casa dei genitori). Nella sezione “Burning Lights”, vinta da Looking for Horses di Stefan Pavlović che ricerca nell’ex Jugoslavia le proprie origini e una lingua perduta, anche Soldat Ahmet dell’austriaco Jannis Lenz compone il ritratto sfaccettato di un turco, soldato e boxeur che nel paese del regista mette alla prova una virilità presupposta che lo vorrebbe incapace di emozioni iscrivendosi a un corso di teatro.

Visionando giorno dopo giorno l’ampia offerta presentata dall’edizione 2021 del festival svizzero si è fatta strada l’impressione che molti titoli, oltre a ragionare sulle relazioni tra generazioni, interrogassero il senso di accadimenti enigmatici. Le Ventre de la montagne di Stephen Loye rappresenta senz’altro quest’ultimo genere di indagine, condotta da un francese residente nei pressi del villaggio alpino dove nel marzo 2015 si schiantò un volo Germanwings su cui viaggiavano 149 passeggeri di diverse nazionalità. In un primo momento, la tragedia fu interpretata come atto terroristico, in virtù di una cornice prevalente nella Francia reduce dall’attentato a “Charlie Hebdo”. Nei repertori televisivi che scandiscono la ricostruzione, François Hollande reagisce all’evento dichiarando che “rafforzare le regole di sicurezza nel pilotaggio aereo è una questione di sicurezza nazionale”. Si verrà però a sapere che l’incidente è stato causato deliberatamente dal co-pilota dopo aver chiuso il capitano fuori dalla cabina resa ermetica dopo l’11 settembre. In certo senso, quindi, proprio le stesse norme securitarie hanno contribuito alla tragedia. Le ragioni del gesto restano misteriose mentre la televisione mostra l’arrivo sul posto dei famigliari delle vittime, i funerali, l’inchiesta, le conferenze stampa da cui non trapela una responsabilità, una giustificazione, un commento della compagnia aerea neppure quando emerge che il pilota era depresso e scoraggiato da una malattia degenerativa agli occhi. Il regista intervista alcuni locali tra cui il funzionario comunale che dovette firmare gli atti di morte e che stette malissimo per mesi. Lui come altri concittadini mettono in risonanza l’evento con incidenti aerei dei tempi della guerra e leggende del passato, in una saldatura tra evento e mito che esprime una ricerca di senso destinata a rimanere insoddisfatta.

Di entrambi i filoni, quello sulla risposta al mistero e quella sul rapporto intergenerazionale, si nutrono Esquirlas dell’argentina Natalia Garayalde e Notre endroit silencieux della bulgara ma ormai francese di adozione Elitza Gueorguieva.  La prima regista ricostruisce con un eccezionale repertorio di home video della sua famiglia il disastro che nel novembre 1995 causò ripetute esplosioni nella fabbrica di munizioni di Río Tercero, spargendo bombe e agenti chimici venefici nell’area dove abitava l’autrice. Dopo molti anni e molti morti, anche tra i protagonisti di questo struggente film, un’inchiesta accertò le colpe dei militari e del loro commercio illegale di armi verso l’ex Jugoslavia coperto dal governo Menem. La seconda segue la scrittrice Aliona Gloukhova in un percorso attraverso la memoria del padre che ha avuto come esito un libro dal titolo Dans l’eau je suis chez moi (Gallimard 2018), scritto dopo essersi trasferita da Minsk in Francia. Le due viaggiano insieme in Bielorussia tra i ricordi d’infanzia di Gloukhova, si recano in Turchia dove il padre annegò lasciando dietro di sé solo un lembo di maglietta e poi, seguendo il filo delle acque ma anche della dispersione famigliare, finiscono in Spagna dalla sorella della scrittrice e in Normadia per una residenza d’artista. L’indagine sulla memoria frammentata del genitore diventa quindi un periplo attraverso un’identità decentrata e continuamente soggetta a ulteriori spinte centrifughe. Parlare e scrivere in una lingua altra si fa così il sintomo di uno sradicamento e il veicolo stesso di una de-territorializzazione ormai assurta a principio vitale e a postura etica nei confronti di un mondo su cui non si può e non si vuole avere controllo o sovranità.

Frame tratto da “Chi zi – If You See her, Say Hello” di Hee Young Pyun & Jiajun Oscar Zhang

Altro complesso rapporto padre-figlia è quello che si elabora attraverso il cortometraggio azero-georgiano presentato al mercato di Nyon, A Butcher’s daughter di Leylakhanim Ganbarli. A Baku, una figlia filma e interroga il padre, che ha lasciato il mestiere di insegnante di scienze per diventare macellaio. Persino durante la pandemia, l’uomo sgozza e macella agnelli sotto lo sguardo della figlia che non si rassegna all’idea che il padre abbia rinunciato a una passione intellettuale per un lavoro sanguinoso ma anche assai più redditizio, senza il quale lei stessa non avrebbe potuto avere la vita tutto sommato agiata che ha avuto. Lo stesso potrebbe dirsi di Pierre Schlesser, regista e poeta, come si vede nel suo notevole L’Huile et le fer, presentato nella sezione riservata a Corti e medi, in cui filma l’opificio dove il padre lavorava ed è rimasto vittima di un incidente a tre anni dalla pensione. Tra le immagini, una serie di cartelli dà spazio ai ricordi dell’autore che fin dall’infanzia ha osservato da vicino la prostrazione che il lavoro ha causato al padre come anche ai contadini che in nome di un secolare senso del dovere si rompevano la schiena nella provincia di cui è originario. Nell’arco di una mezz’ora, Schlesser riesce a comporre una storia dei gesti (“Une histoire des mains esclaves et savantes qui depuis toujours travaillent”) di generazioni di operai le cui mani accarezzano lamiere arrugginite e segano legname, mostrandoci nel finale quelle della nonna, vedova e orfana di un figlio, che continua a cucinare per i suoi “fantasmi” mentre da una chiave inglese bruciano lingue di fiamma e un’ortensia si consuma nel fuoco.

Spesso la sezione corti e medi di Nyon riserva piacevoli sorprese, come Chi zi – If You See her, Say Hello di Hee Young Pyun & Jiajun Oscar Zhang, un vagabondaggio in un villaggio cinese sviluppatosi grazie all’estrazione petrolifera ma che, una volta prosciugatisi i pozzi, è stato abbandonato a se stesso. La voce narrante vaga tra gli edifici diroccati di cui si è reimpossessata la vegetazione alla ricerca della propria infanzia, dei fantasmi del suo primo amore e dello spettro paterno. Il ritratto di un paese in preda ad un progresso tumultuoso che procede inghiottendo spazi e lasciando dietro di sé macerie e memorie inquiete non è privo di guizzi ironici e poetici.

Frame tratto da “Les guérisseurs” di Marie-Eve Hildbrand

Nella Competizione Svizzera si segnala Paralleles Lives di Franck Matter, che si interroga sulla possibilità di riconoscere un legame di appartenenza tra persone accomunate solo dal fatto di essere nate tutte lo stesso giorno in diversi luoghi del pianeta. Il regista ha cercato tramite un messaggio in rete altri che come lui fossero nati l’8 luglio del 1964 e ha scelto di filmare le storie di quattro coetanei: una statunitense, una sudafricana, un cinese, un figlio di padre ungherese cresciuto a Parigi e trasferitosi adulto a Los Angeles. Parabole personali e collettive, repertori privati e immagini girate nel corso di anni, fino all’avvento della pandemia, per un collage-mondo sulla vertigine della storia che ci investe e condiziona al di là delle singolarità, che ci lega nonostante le differenze sociali. Nella stessa sezione, è passato Les guérisseurs di Marie-Eve Hildbrand, introdotto dalla voce della regista che spiega: “da alcuni mesi filmo mio padre che visita e cura i suoi ultimi pazienti”. Mentre il genitore si congeda progressivamente dalla professione, subisce un piccolo infarto e finisce per chiudere lo studio senza aver trovato qualcuno che voglia subentrargli, il film segue un gruppo di praticanti alle prime armi che entrano in contatto con una medicina che, pur restando vincolata a esigenze e principi antichi, si trova oggi di fronte a trasformazioni tecniche come la sperimentazione di robot per la cura e la diagnostica. Nel momento cruciale in cui dovrebbe cominciare a sezionare dei cadaveri, una studentessa in medicina si reca da una guaritrice tradizionale per comprendere le ragioni del senso di colpa che prova e l’opportunità di proseguire la sua formazione. Una riflessione sul significato della cura e della guarigione quanto mai attuale.

Sarebbero ancora numerosi i possibili esempi della capacità che il “cinema del reale” contemporaneo ha di farsi strumento della ricerca di un senso, personale e collettivo, che a molte latitudini appare smarrito e collante di biografie e avvenimenti di cui facciamo esperienze in modo sempre più frammentario. E, verosimilmente, molti di più ne arriveranno negli anni a venire.

© CultFrame 05/2021

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