51° Visions du réel: l’anima/le nel cinema del reale

Visions du Réel 2020, presentato "Becoming Animal" di Peter Mettler
Frame da “Becoming Animal” di Peter Mettler (2018)

“Pinguini!”, rispose lo studente alla docente che chiedeva cosa fosse il “cinema documentario” e non senza ragione. Ma se il fattore “animale” è presente anche nel documentario televisivo, perché si dia “cinema” è necessario che chi filma abbia uno sguardo capace di non dare per scontata fisionomia e funzione dell’animalità.

Nel 2020, al festival Visions du Réel trasferitosi online a causa di una pandemia forse causata dallo spill-over di una malattia tra speci animali ed esseri umani, diversi film affrontavano l’esperienza del “reale” dalla prospettiva del rapporto umano-animale e dunque della dialettica tra fusione e separazione tra noi e le altre creature viventi.

L’ultima fatica del regista svizzero-canadese Peter Mettler, a cui il festival ha dedicato una retrospettiva completa si intitola proprio Becoming animal (2018), divenire animale. Realizzato insieme a Emma Davie nel Grand Teton National Park, il film è un’immersione nell’ambiente con la guida del filosofo David Abram che ci invita a prendere coscienza del fatto che, a suo avviso, “le cose ci guardano mentre noi le guardiamo”, gli animali restituiscono il nostro sguardo e gli alberi le nostre carezze. A una delle due masterclass che Mettler ha tenuto online (la prima organizzata da DA Films e la seconda da Visions du Réel), Mettler ha spiegato:

“L’idea del film è di mostrare noi umani come animali tra gli altri: io, con la macchina da presa, sono un animale che utilizza uno strumento sofisticato inventato dalla sua specie, sono anche io parte dell’ambiente in cui mi muovo. Ma come il linguaggio verbale, anche il linguaggio cinematografico opera una cesura tra esseri umani e mondo naturale, così voglio riflettere su quella cesura attraverso un film che, come il mio precedente Picture of light (1994), mostra una troupe che si avventura in uno spazio naturale e si rende conto di cosa significa produrre immagini della natura, prende coscienza degli elementi e dei limiti che ci pongono”.

Dispiegando le più avanzate possibilità di percezione sensoriale che il cinema oggi mette a disposizione, il film ci permette di avvertire il respiro del mondo, osservare le pieghe più recondite del corpo di una lumaca, assistere da vicino allo scornarsi tra due alci che non potremmo mai avvicinare, prendere coscienza del nostro ruolo negli ecosistemi e dell’intreccio tra umanità, animalità e paesaggio.

Il film "Fish Eye" di Amin Behroozzadeh presentato a Visions du Réel 2020
Frame da “Fish Eye” di Amin Behroozzadeh

Un intreccio in cui siamo immersi ma di cui il capitalismo si fa beffe estraendo spietatamente risorse dal cosmo senza senso di responsabilità né pietà verso le creature, come testimonia Fish Eye di Amin Behroozzadeh, lungometraggio nel concorso internazionale realizzato a bordo di un grosso peschereccio battente bandiera iraniana destinato alla cattura di tonni su larga scala per il mercato globale. La tonnara rinnova la sua espressione cinematografica in un documentario di osservazione che per la prima metà filma la quotidianità di quelli che non sono più “contadini del mare” come in De Seta ma operai, uomini africani che vivono gran parte dell’anno lontano dagli affetti, costretti a una vita difficile pur di guadagnarsela. La seconda metà mostra la mattanza e il processo industriale di trattamento delle carni a bordo della nave, nei suoi sotterranei adibiti a vero e proprio macello in cui l’occhio del pesce ci chiede conto del mondo in cui viene trucidato, asfissiato su un ponte già tinto del sangue di chi lo ha preceduto.

A fronte di questa crudeltà, possiamo ancora mangiare animali? Gli umani sono destinati a uccidere altre specie oppure no? Esiste un modo “etico” di farlo o è un atto sbagliato in sé? Su questo ragiona in modo non scontato Nous la mangerons, c’est la moindre des choses di Elsa Maury, film presentato nella competizione medio e cortometraggi. Il titolo può significare “mangiarla è l’ultimo dei problemi” ma anche “come minimo la mangeremo” o “mangiarla è il minimo che possiamo fare” dove il pronome “la” si riferisce alla pecora, bestia che Nathalie, la protagonista, alleva in gran numero nella sua fattoria e della cui macellazione impara a occuparsi personalmente. La donna fa infatti parte del gruppo di allevatori del piccolo comune occitano di Le Vigan che nel 2018, dopo un anno di discussioni e trattative, è giunto a un accordo per la presa in carico e la gestione cooperativa del mattatoio locale prima di allora al centro di denunce sulle terribili condizioni di abbattimento degli animali. A questa pagina si trova un reportage della radio francese sulla vicenda con una fotografia che ritrae la protagonista del film che Elsa Maury ha girato tempo dopo.  In realtà il documentario non parla di questa storia che però è in qualche modo sullo sfondo e aggiunge un tassello importante al contesto in cui il film è stato realizzato.

Il film "Nous la mangerons, c'est la moindre des choses" di Elsa Maury presentato a Visions du Rèel 2020
Frame da “Nous la mangerons, c’est la moindre des choses” di Elsa Maury (2020)

A Maury non interessa né fare un reportage di denuncia sull’industria della carne e sul sistema dei macelli né perorare la causa dei mattatoi “etici” o di chi uccide in modo da minimizzare il danno. Non c’è né critica antispecista né ipocrisia carnivora in questo documentario corporale sul rapporto tra esseri umani e morte animale che si apre e si chiude con due scene di trapasso molto diverse tra loro. Nella prima, un agnellino muore poco dopo la nascita mentre l’allevatrice spende ogni energia in suo possesso per salvargli la vita. La pena di fronte all’addio a una creatura indifesa è pari all’angoscia di chi in quella perdita vede anche un mancato introito a venire. L’economia della morte è un sistema che non esclude un complesso investimento emotivo dell’allevatrice. Si può amare le bestie e nello stesso tempo ucciderle e vivere della loro morte. In questa apparente contraddizione c’è qualcosa di profondamente umano che vale la pena interrogare. L’altra scena di morte giunge dopo che per circa un’ora la macchina da presa ha seguito la protagonista nel lavoro di cura del gregge dalla culla al piatto. Si tratta di un percorso di apprendimento in cui la morte non è più un accidente ma una scelta e dare la morte ai propri capi è quasi un’ascesi in cui tanto lo spirito quanto lo sforzo muscolare sono messi alla prova. La regista si muove tra un’estrema prossimità alla materia fin nelle viscere infestate da parassiti e una distanza critica che non esclude l’ironia nei confronti della bestia umana.

Lo sguardo del film su quella particolare forma di amore che nutre l’umano per l’animale che uccide e mangia ricorda un racconto della scrittrice brasiliana Clarice Lispector dal titolo Una storia di tanto amore. Una bambina cresce in una fattoria amando così tanto le sue galline “da conoscerne l’anima e le più intime ansie”, proprio come la protagonista di Nous la mangerons che chiama per nome le sue pecore e agnellini essendo anche in grado di riconoscere di ciascuno il carattere. La bambina è affezionata in particolare a due galline, Pedrina e Petronilha, di cui si prende cura come fosse un’infermiera pronta a intervenire al minimo sospetto di malattia:

“La bambina non aveva ancora capito che gli uomini non possono essere curati dalla malattia di essere uomini e le galline da quella di essere galline: tanto l’uomo quanto la gallina possiedono miseria e grandezza […] inerenti alla propria specie”

scrive Lispector. Un giorno, la bambina parte in viaggio e al suo ritorno scopre con orrore che i parenti hanno mangiato Petronilha. Per consolarla, la madre le spiega che mangiare gli animali è un modo per essere più simili a loro e tenere con sé i migliori. Così, qualche anno dopo, affezionatasi a una nuova gallina, prova per lei un amore

“più realista e non romantico: […] quando giunse il momento che anche Eponina venisse mangiata, la bambina non solo lo seppe ma anche trovò che quello fosse il destino fatale di chi nasceva gallina. Le galline sembravano avere una precognizione del proprio destino e non imparavano ad amare i loro padroni. Una gallina è sola al mondo”.

La bambina mangia Eponina

“con un piacere quasi fisico perché sapeva che così si sarebbe incorporata in lei e sarebbe diventata ancora più sua di quanto non fosse in vita. […] La bambina era un essere fatto per amare”.

L’amore tra umano e animale domestico rientra in scena se quest’ultimo non è destinato alla tavola come nel cortometraggio belga Maîtresse di Linda Ibbari che filma quattro donne e i loro rispettivi animal love. Il gatto nudo Tutule si presta al bagnetto con una pazienza che può essere solo di un felino innamorato e alle carezze che seguono vibra un ringraziamento gutturale; il Rottweiler Junkie si gode abbaiando le coccole della maitresse mentre il pappagallo Monsieur Dupond approfitta della bontà della padrona per fuggire in cima a un albero da cui poi viene recuperato in un tripudio di bacetti e carezze. Quasi nessuna donna rinuncia ad accompagnare i gesti d’amore con parole affettuose, a interpellare il proprio amore con un nome proprio eccetto per il maestoso pitone giallo a cui la padrona riserva solo sguardi estatici e un grosso ratto per pranzo. L’immagine si stringe man mano a indicare una progressiva fusione zoantropica tra le maîtresse e la loro (contro)parte animale e più i corpi si saldano più la parola lascia spazio a un paesaggio sonoro di sospiri e mugolii: è una riemersione dell’animalità sopita nell’umano o una metamorfosi in una nuova forma ibrida?

Il film "Pyrale" di Roxanne Gaucherand presentato a Visions du Rèel 2020
Frame da “Pyrale” di Roxanne Gaucherand

L’amore è ancora una volta in gioco in Pyrale della francese Roxanne Gaucherand, presentato in Burning Lights e premiato come opera più innovativa di quella sezione. Questa volta il corpo animale esprime con i suoi eccessi le inquietudini di un’umanità che vive sotto minaccia. Infatti, il pianeta risponde agli abusi riaffermando con violenza la sua esistenza attraverso epidemie, terremoti, incendi, inondazioni, invasioni di insetti. Pyrale rinvia a un tipo di falena molto prolifica e vorace e che negli ultimi anni ha invaso alcune zone del Sud della Francia in periodo primaverile-estivo distruggendo a tappeto i cespugli di bosso. Il film è ambientato nell’estate 2016 e, mentre la popolazione cerca di far fronte al flagello della falena, la diciottenne Lou scopre il suo amore per l’amica Sam. Come indica il suo nome, la pyrale è attratta dal fuoco ovvero dalle fonti luminose così il film è girato di notte quando le farfalle nello stomaco di Lou sciamano fuori per scherzare con il fuoco della passione. Con un linguaggio che accosta reportage e film di formazione dall’estetica Virgin suicides, Roxanne Gaucherand filma il persistere dell’amore nonostante e forse contro il sentimento di apocalisse in cui viviamo.

© CultFrame 05/2020

SUL WEB
Visions du Réel – il sito

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