Letteratura e cinema alla 77. Biennale Cinema di Venezia

Frame tratto dal film “Assandira” di Salvatore Mereu

Cultframe Arti Visive e Cultframe Tv (con alcuni interventi di Eleonora Saracino) si sono occupati ripetutamente di quel genere peculiare di opere cinematografiche che sono i film tratti da romanzi, film inevitabilmente più ‘scritti’ di altri o di cui almeno è più facile vedere la ‘scrittura’, soprattutto se si conoscono i testi che li hanno originati.

La Mostra del Cinema di Venezia 2020 è stata particolarmente ricca di questo tipo di opere, fin dalla proiezione inaugurale con Lacci di Daniele Luchetti, trasposizione dell’omonimo romanzo del 2014 di Domenico Starnone alquanto attesa dai suoi molti lettori. E proprio in quel romanzo, con una curiosa coincidenza tra Roma (dove libro e film sono in buona parte ambientati) e Venezia (dove il film ha visto per la prima volta la luce o, meglio, il buio della sala) si può leggere un sogno del protagonista che propone un’immagine quasi calviniana:

“L’intera mia casa stava lasciando Roma […] come una barca lungo un canale. […] L’appartamento nella sua interezza si stava dirigendo verso Venezia, e tuttavia, fuori di ogni logica, si stava lasciando alle spalle una parte di sé. Non riuscivo a capire come potesse accadere che ci fossero due studi, identici in ogni dettaglio, compresa la mia presenza e quella di Lidia, ma uno restava immobile, isolato, e l’altro si allontanava insieme a tutta la casa”.

Nel nostro caso, la citazione – peraltro assente nel film – potrebbe evocare con una certa precisione misteriosa le molte corrispondenze che legano un testo e un film tratto da questo, in certi casi “identici” nella drammaturgia eppure lontani l’uno dall’altro in primis per le diverse specificità dei mezzi e dei linguaggi. Specificità che riguardano naturalmente il piano visivo ma anche quello sonoro. Così, il Lacci di Luchetti si apre sulle note del letkiss, motivetto finlandese portato al successo in Italia dalle gemelle Kessler, il cui vinile ascoltava già la giovanissima Stefania Sandrelli in Io la conoscevo bene (1965) e ciò potrebbe autorizzare altre derive intertestuali. Ma la struttura e la messa in scena sono piuttosto fedeli al romanzo, procedendo per episodi e rivelazioni progressive e scegliendo di segnalare i vari piani temporali della narrazione mutando gli interpreti dei personaggi principali (Luigi Lo Cascio ‘diventa’ Silvio Orlando, ad Alba Rohrwacher succede Laura Morante). Tra le poche varianti coerenti all’originale, c’è il mestiere del protagonista che nel film è autore e conduttore di trasmissioni letterarie radiofoniche (e non televisive) in cui racconta libri ed emozioni che nella vita tace e non rivela affatto alla moglie e ai figli che nel finale gli distruggeranno l’appartamento signorile acquistato anche coi proventi del suo lavoro oltre che con i risparmi della loro madre. Tutto torna, ma commuove ben poco.

In attesa del Tre piani di Nanni Moretti, tratto dal romanzo dell’israeliano Eshkol Nevo, annunciato per Cannes 2020 e che molto probabilmente uscirà solo a ridosso di Cannes 2021, un’altra casa è al centro di un altro adattamento presentato nel Concorso principale di Venezia 77: quello de Le sorelle Macaluso, opera teatrale e ora cinematografica scritta e diretta da Emma Dante, storia corale di un gruppo di sorelle (sette sul palco, cinque sullo schermo) cresciute in un appartamento di Palermo che nel corso degli anni si fa sempre più fatiscente man mano che la crudeltà della vita le ferisce e le separa. Anche qui, colpisce un uso della musica scopertamente teso a rendere popolare ed ‘emozionante’ a suon di Battiato e Gianna Nannini una vicenda che a teatro presentava numerose scene avvolte nel buio e che al cinema trova una luminosità sin troppo patinata. Ne consegue, il depotenziamento delle parti più ricercate del suo lavoro co-firmato con Elena Stancanelli e Giorgio Vasta, dall’espediente di incorniciare il racconto e i suoi salti temporali con la creazione e l’immagine di un foro in una parete della casa, alle reiterate riprese dei suoi decori modesti svuotati dei personaggi, all’impietosa decadenza dei corpi delle protagoniste che invecchiano.

Frame tratto dal film “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante

Dopo quella astratta e attualizzante del one-woman-show di trenta minuti allestito con Tilda Swinton da Pedro Almodovar nella sua personale rilettura della Voce umana di Cocteau, per restare al cinema italiano la trasposizione più interessante vista a Venezia è senz’altro quella di Assandira, presentato Fuori concorso. Il regista Salvatore Mereu è riuscito a realizzare questo suo film, ispirato al romanzo omonimo edito nel 2004 dall’antropologo-scrittore sardo Giulio Angioni, soltanto otto anni dopo la sua originalissima versione di Bellas mariposas dell’altro conterraneo Sergio Atzeni. Le vicissitudini produttive della sua ultima opera, che inizialmente aveva un cast diverso da quello che poi l’ha portata a termine, iniziano con l’audace scelta dell’interprete protagonista: il protagonista/narratore del libro, Costantino, viene affidato da Mereu a un altro scrittore tanto anomalo quanto indimenticato quale Gavino Ledda, l’autore dell’autobiografico Padre padrone divenuto a sua volta un famoso film nel 1977 grazie ai fratelli Taviani.

Frame tratto dal film “Assandira” di Salvatore Mereu

Sull’interpretazione del non-attore e pastore prima che scrittore Ledda si gioca tutta la scommessa di Mereu. Anche perché la struttura enunciativa del romanzo, tra flusso di coscienza e flashback continui che rivelano quello che è in sostanza un giallo vero e proprio, non poteva che reggersi sulla forza di una voce che risultasse più che autentica, a partire dal dialetto sardo in cui parla. E suonano autentiche anche alcune parole pronunciate da Ledda in italiano che non provengono direttamente dal romanzo ma rinviano direttamente alla sua stessa esperienza di vita, come quando dice: “Da me neanche da bambino si giocava a fare il pastore, lo so io che mi hanno portato via da scuola”.

Croce e delizia delle trasposizioni letterarie al cinema, la voce off è qui davvero irrinunciabile: in modo simile a un film visto a Venezia nel 2019, Effetto domino del veneto Alessandro Rossetto, tratto dal romanzo omonimo di Romolo Bugaro, la parlata in dialetto locale dei personaggi è accompagnata da una voce in italiano fedele al testo scritto: per entrambi sarebbe stato impensabile far parlare in italiano corretto i loro interpreti, sardi e veneti, e la voice over aiuta quindi a chiarire l’intreccio oltre che, nel caso di Mereu, anche i pensieri contrastati del protagonista, pastore ormai in pensione che viene coinvolto dal figlio nella creazione di un agriturismo denominato Assandira dove inscenare per gioco vecchi mestieri e antiche tradizioni dell’isola attirando turisti da tutt’Europa. Non conta che nel vecchio ovile di famiglia l’uomo allevasse maiali, i forestieri si aspettano le pecore a cui si aggiungono persino due struzzi a rappresentare l’allegra resa alla globalizzazione di ogni merce, animali compresi. Un modo come un altro di sbarcare il lunario e non abbandonare la propria terra, per i giovani, ma nel maturo Costantino crescono la vergogna e il senso di colpa per la pantomima di cui è complice.

Ci sono poi altre analogie tra i due adattamenti operati da Rossetto e Mereu, come soprattutto la divisione in capitoli con titoli-didascalie che strutturano la narrazione e l’aver apportato alcuni interventi originali nella parte conclusiva dei loro film. In Effetto domino si estende l’orizzonte della vicenda a uno scenario globale, dal Nordest d’Italia all’estremo Oriente, e nel finale si ritrae con toni quasi grotteschi e una certa virata estetica la deriva morale di un’epoca in cui il mito dell’eterna giovinezza sembra poter diventare realtà. In Assandira il personaggio della compagna nordeuropea del figlio di Costantino (lui è Marco Zucca, lei l’attrice tedesca Anna Konig) ha una sensualità più pronunciata che nel libro e i baccanali notturni offerti agli ospiti dell’agriturismo che sconvolgono Costantino non sono solo un piccolo tradimento del testo: rischiano anche di dar luogo a un dérapage misogino e a un epilogo meno asciutto, e ciò è un peccato per un film che riesce a rendere quasi miracolosamente la profondità e l’ambiguità dei pensieri della voce narrante del romanzo con una serie di piani sequenza e una direzione degli attori tutt’altro che scontata. La “profanazione” subita da Costantino era già ben chiara, senza bisogno di forzarne i toni, ma si sa che ogni traduzione da una forma a un’altra implica un qualche tradimento.

© CultFrame 09/2020

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