Lo sguardo in una stanza. Una possibile relazione tra cinema e teatro

Non pochi registi, tra cui l’ultimo Polanski, si sono cimentati nella realizzazione di film che avessero un’unica location, una camera o una casa, concentrando l’imponente macchina cinematografica in uno spazio ristretto che ridefinisce linguaggi e strutture della settima arte. Vero è che certi generi, il thriller, l’horror, sono “naturalmente” votati a simili scelte, nell’intento di accrescere suspense ed elementi perturbanti che solo uno spazio circoscritto, claustrofobico e domestico può offrire. Ancor più interessante è quando l’idea di realizzare un film interamente ambientato in una stanza prescinde stereotipi di genere, richiamando il teatro nel recupero delle fatidiche “quattro pareti”. Quando la sceneggiatura attinge più o meno fedelmente a una pièce teatrale si pone inevitabilmente un problema: quale posizione deve assumere la regia cinematografica in modo da conservare l’essenza del testo e, al tempo stesso, garantire la diversificazione legata al ricorso a un’altra arte e a un altro medium comunicativo? In teoria, ogni regia filmica può caratterizzarsi per la maggiore o minore “visibilità” da far assumere alla macchina da presa in relazione ad azioni e dinamiche tra personaggi che si esauriscono nello spazio di una singola location: in altri termini si tratterebbe della maggiore o minore volontà di indirizzare uno sguardo che a teatro è sostanzialmente libero.

Un film come The Big Kahuna diretto da John Swanbeck, per esempio, presenta inquadrature sobrie, senza angolazioni che connotino particolarmente i personaggi; distribuisce equamente primi piani tra i tre protagonisti venditori di lubrificanti industriali che si muovono nella suite per meeting dell’albergo, in attesa del “grande capo”. La teatralità è nei dialoghi che privilegiano lunghe battute, frutto della forte impostazione testuale di Hospitally Suite scritta da Roger Rueff che su questa imbastisce la sceneggiatura del film. Per l’insistenza dei piani stretti sui volti, per la linearità dei passaggi di inquadratura, il film sembra ricalcare molti aspetti del cinema classico.  Al polo opposto, un film come Carnage di Polanski non ammette neppure quelle “prese d’aria” presenti in The Big Kahuna dove, a turno, i protagonisti evadono dalla suite sia fisicamente che oniricamente. Quello di Carnage è a tutti gli effetti un film “a porte chiuse” che ipertrofizza il gioco al massacro tra sé e l’altro, attraverso dialoghi velenosi, pieni di rancori, rinfacci, idiosincrasie; un gioco al massacro tenuto fino in fondo con la macchina da presa che gode nel far esplodere le parti.  Le due coppie borghesi comunicano da posizioni/postazioni schematiche, geometriche, simboliche, -in piedi, seduto, seduto di spalle, in piedi-, all’interno di una scacchiera non disegnata si scambiano, passano da vittime a carnefici, tra punti di vista mutanti e deformanti per il ricorso a forti angolazioni. Tratto dalla commedia Le Dieu du Carnage di Yasmina Reza, co-sceneggiatrice insieme a Polanski, il film condensa fedelmente la lezione sartriana e una precisa estetica cinematografica che delega al punto di ripresa il compito di esasperare dinamiche e contenuti che con lo sguardo teatrale, totale e centrato, verrebbero neutralizzati. Significativamente, la fotografia mantiene intatta la percezione aristotelica di unità temporale con la luce esterna che cambia e illumina quel salotto borghese, come si trattasse di luce naturale.

Il 1972 è l’anno di due notevoli film d’impianto teatrale e dall’ambientazione ristretta a un unico luogo: Le lacrime amare di Petra von Kant di Rainer Fassbinder, autore dell’omonima pièce da cui è tratto, e Sleuth di Joseph Mankiewicz. Entrambi sono incentrati sui rapporti di forza, sulle logiche di controllo e potere, ma il primo, ambientato nella casa atelier della protagonista, declina tutto questo in un’ottica di genere. Al centro, il triangolo amoroso tra una stilista, amata dalla propria segretaria, che si innamora di un’altra donna. Opera cinematografica tra le più vicine alla scena, mantiene la teatralità di dialoghi e azioni attraverso lunghi piani sequenza, con macchina da presa fissa e centrale, con personaggi che entrano ed escono lateralmente dalle inquadrature come l’azione verrebbe vista a teatro; le protagoniste accarezzano lentamente oggetti/feticci (si pensi a bambole e manichini), le inquadrature esplorano spazi angusti con carrellate e panoramiche, mentre il montaggio viene limitato a favore di “stacchi” di buio e luce mediante fonti luminose interne alla scena.

Girato in un appartamento è invece Sleuth, scritto da Antony Shaffer, nelle due trasposizioni cinematografiche del 1972 e del 2007. A distanza di oltre trent’anni, i registi Joseph Mankiewicz e Kenneth Branagh esemplificano due diversi modi in cui il cinema s’innesta su strutture teatrali. Nella prima versione il montaggio è lineare, con movimenti di macchina che rivendicano la propria autonomia rispetto ai meccanismi di osservazione della scena: dissolvenze incrociate, carrellate ottiche, falsi raccordi, punti di ripresa dall’alto. Avendo a disposizione più spazi domestici e luoghi esterni alla casa, la regia è facilitata nel ritmo. Ma qui, a differenza di Carnage, la vera prigione non è tanto nei rapporti sociali e nelle miserie individuali, quanto nell’impossibilità di uscire da un gioco perverso, dalla carneficina indotta da eterni ritorni ed eterni bluff. Pinteriano dall’inizio alla fine, il contenuto trova forma più matura nell’ultima trasposizione, quella di Kenneth Branagh, con Jude Law e Michael Kane e con Harold Pinter, per l’appunto, che firma la sceneggiatura di questo thriller da camera. I fantocci e i manichini mossi da ingranaggi meccanici che caratterizzano l’eccentrico ambiente nella versione del ’72, cedono il posto alla variante ipermoderna e digitale; la regia accresce la suspense con colori che virano sul blu, espediente più affine alla scena di quanto non lo sia la saturazione cromatica della prima pellicola.

Sempre due protagonisti, attorno al tavolino di un salotto squallido in The Sunset Limited, film trasmesso da HBO per la regia di Tommy Lee Jones che interpreta al fianco di Samuel L. Jackson l’omonimo dramma teatrale scritto da Cormac McCarthy. Dialoghi da teatro dell’assurdo, personaggi grotteschi e drammatici identificati da aggettivi, “bianco” e “nero”, impersonali come quelli di Ionesco o Beckett. Dopo alcuni minuti capiamo che i due si sono incontrati poche ore prima quando l’uomo di colore aveva evitato che l’altro si suicidasse buttandosi sotto il “Sunset Limited”, treno della metropolitana di New York. Inizia così un lungo duello filosofico-esistenziale condotto con affilate armi dialettiche, sul senso della vita, su Dio, sul suicidio e sulla felicità, sulla civiltà occidentale che “è andata definitivamente in fumo nelle ciminiere di Dachau”. I due attori sorreggono l’impostazione teatrale attraverso una recitazione impeccabile e alleggeriscono il compito della regia che così può optare per inquadrature lunghe, piani sequenza, campi medi e totali, ma anche dettagli dall’effetto straniante ripresi da particolari prospettive. In profondità di campo, visibile in quasi tutte le inquadrature, la porta, ancora sartrianamente chiusa, verso la quale i personaggi si avviano ma senza mai oltrepassarla. C’è un continuo rimandare l’atto di uscita; in realtà non c’è nessuna via di uscita. Il set cinematografico, come la scena, diventa una gabbia: a teatro cala il sipario, quarto muro carcerario, sul set la macchina da presa osserva dal basso l’uomo nero, poi si avvicina, scavalca la finestra alle spalle, avanzando verso le sfumature rosate di una nuova alba.

© CultFrame 11/2011

 

 

 

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