Pierre Creton ⋅ Retrospettiva completa al 43° Cinéma du Réel e 3 DVD per le Éditions de l’œil

Frame da “Va, Toto”, 2017

A Maniquerville, in Normandia, la storica casa di riposo sorge in un parco presso un castello diroccato. Generazioni sono cresciute venendo a trovare un parente o passeggiando tra gli alberi con il pensiero di finire qui i propri giorni. Ma la struttura è obsoleta e gli ospiti devono essere trasferiti presso un’altra sede, più nuova ma anche più triste, accanto a una rotatoria, niente verde intorno, traffico e cemento. Le gran cortège (2011) di Pierre Creton parte da qui, dalla fine di un’epoca che si impone inesorabilmente su corpi vulnerabili che non hanno alcun potere su ciò che accade loro.

In questo corto, il regista filma il trasloco degli ospiti, caricati a uno a uno in barella su un’ambulanza e portati verso la nuova casa. Durante il breve tragitto, la macchina da presa sta loro accanto e filma lo spaesamento sui volti vissuti, l’apprensione, la vulnerabilità, l’abbandono in mani altrui. Il film ha la forma di un corteo o di un rosario in cui ogni sequenza segue un ospite che il regista da dietro l’obiettivo di volta in volta nomina: “Je suis Madame Deparis”, “Je suis Madame Sérandour”, “Je suis Monsieur Dechanteloup”, “Je suis Monsieur Delamare”… In francese “je suis” ha un doppio significato: io sono e io seguo. Questo rapporto di omonimia tra “essere” e “seguire” alla prima persona presente esprime in modo eloquente il rapporto di prossimità e di empatia che il cineasta stabilisce con i suoi soggetti, siano essi umani o animali, poiché l’intera filmografia di Creton indaga la relazione con il vivente in tutte le sue forme in un incessante tentativo di identificazione con l’altro.

Le grand cortège segue di due anni il lungometraggio Maniquerville (2009), girato nella stessa residenza in dismissione poco prima che avvenisse il trasloco, ma si tratta di due opere diverse per quanto sorelle. Maniquerville è girato in un bianco e nero che richiama gli schizzi a carboncino su carta mentre Le grand cortège è a colori. In quest’ultimo il tempo sfugge tra le mani, la camera a mano è mobile, in apprensione, mentre in Maniquerville si avverte il tempo stagnante e la vecchiaia che trovano un riflesso ma anche un balsamo nella letteratura. Un’operatrice, infatti, invita l’attrice Françoise Lebrun (presenza ricorrente in Creton) a leggere Proust con gli anziani ma, in una scena, il frastuono del vicino cantiere è tale da rendere quasi impossibile la lettura ad alta voce.

Frame tratto da “Maniquerville” (2009)

“Io non faccio film su qualcosa, ma sotto il segno di qualcosa, oppure nel mezzo di qualcosa” ha dichiarato Pierre Creton durante uno degli incontri che hanno accompagnato la retrospettiva completa dedicatagli dal parigino Cinéma du Réel 2021, edizione online che solo il pubblico francese ha potuto seguire nella sua integralità per via di restrizioni geografiche di accesso ad alcune sezioni del festival. Ma chi non avesse potuto seguire le proiezioni e gli incontri digitali di approfondimento potrà comunque entrare in contatto con tutta l’opera finora non edita in DVD di questo cineasta grazie alla pubblicazione di un cofanetto in tre volumi curato da Cyril Neyrat e Gaël Teicher per le raffinate Éditions de l’œil/La Traverse (che pubblicano in DVD, tra gli altri, anche l’opera di Jean-Daniel Pollet e alcuni film di Paul Vecchiali). Ogni volume+dvd ha un focus: Sur la voie raccoglie le opere legate in qualche modo al movimento, alle linee di fuga, alle traiettorie esistenziali, ai mezzi di locomozione, treni, trattori, biciclette, automobili, simboli di un trasporto erotico, mediatori di una relazione sensuale al padre che si allunga come un’ombra su tutta la filmografia dell’autore sin da Le voyage à Vézelay (2005), in cui l’elaborazione del lutto inizia con l’uso del veicolo paterno (in realtà è di Vincent Barré, scultore e regista spesso complice) per andare a visitare la tomba di Georges Bataille. Un padre ciclista e cacciatore amato e rinnegato dal figlio stanziale, vegetariano e omosessuale che sembra cercarlo e ritrovarlo in tutti i contadini attempati, corpulenti, arruffati, ruvidi ma anche teneri che attraversano il suo cinema. Un cinema che sin dalla fine degli anni Ottanta è per Creton un prolungamento della vita che ne amplifica la capacità trasformativa sulla materia. Ma il racconto, la narrazione, il film sono anche immanenti all’instante vissuto, ne sono parte integrante e non intervengono après coup, come osserva l’amica e co-sceneggiatrice Mathilde Girard nel saggio che apre il volume Sur la voie, nome della prima versione di un film girato nel 2013 e poi modificato nel 2017 col nuovo titolo Sur la voie critique. Il ritorno, talvolta anche a distanza di anni, su uno stesso film non è un caso isolato nel percorso di Creton che lascia certe opere decantare e macerare un po’ prima di manipolarle nuovamente. Sur la voie critique comincia con la storia parallela di Pierre e Yacine, due ragazzi che si ritrovano sui banchi di scuola insieme ai bambini come se dovessero recuperare il tempo perduto, rimediare agli studi carenti. Ciascuno nella propria classe si applica e attraverso la conoscenza (una delle insegnanti è Françoise Lebrun) capisce di voler andare per il mondo e scoprirlo con occhi nuovi. Il film diventa allora una specie di road movie, intraprende una deriva esplorativa che porta i due cammini a incrociarsi per poi separarsi nuovamente. Una riflessione sulla necessità del ritorno e sulla ricerca del sapere come cura di sé e del rapporto con le cose.

Frame tratto da “La vie après la mort” (2002)

Habiter, con la prefazione di Gaëlle Obiégly, è il tomo che raccoglie le opere sullo spazio domestico inteso come casa o luogo di provenienza ma anche come territorio dell’anima e paesaggio sentimentale popolato di affetti, fantasmi, ricordi, presenze su cui si proiettano sogni e desideri. Tra questi un posto importante spetta a Jean Lambert, anziano agricoltore con cui Creton intreccia un’amicizia il cui precipitato poetico è il dittico La vie après la mort (2002) e L’heure du Berger (2008): film di amore, di assenza, di spettri e metempsicosi. Regista contadino, Creton filma nella stessa regione normanna in cui è nato e in cui coltiva la terra e alleva bestie che sono parte del suo cinema tanto quanto gli abitanti del paese. Creton non esprime l’incanto rurale né prova alcuna nostalgia per un mondo arcaico immaginario. Rifugge da qualsiasi retorica di ritorno alla terra perché lui quella terra non l’ha mai lasciata veramente anche se ha studiato le Belle arti a Le Havre. Il suo cinema mostra la minaccia della finitudine, racconta la morte e l’erotismo, l’attrazione verso la decadenza. Le persone che filma popolano il suo quotidiano sin dall’infanzia, le ha viste cambiare negli anni e a loro volta lo hanno visto invecchiare. Non sono necessariamente persone che condividono la sua visione del mondo, non ce le mostra come esempi o esemplari da compatire, ma non può fare a meno di avvicinarle, passarci del tempo, interrogarle, ascoltarle, elaborare con loro un pensiero sul mondo tramite il cinema come avviene in Secteur 545 (2004), il primo lungometraggio ad aver ricevuto una distribuzione nelle sale francesi. Una serie di coppie o singoli agricoltori risponde alla domanda “cosa differenzia l’umano dall’animale?”: non è che un modo per filmare i volti, i gesti, la mimica di vicini di casa e compagni di strada, i gatti che passano, che salgono sulle spalle di uomini in apparenza rozzi ma capaci di effusioni e delicatezza. Creton è un cineasta tra gli agricoltori, non al di sopra di essi né di passaggio. In uno dei cortometraggi recenti, L’avenir le dira (2020), il dialogo viene meno ma resta la prossimità ai corpi, il senso di un destino comune. Il film ritrae un padre e un figlio alle prese con la raccolta del lino. Di questi uomini schivi vediamo l’impegno di giorno e di notte sulle trebbiatrici, la fatica delle manovre, i visi induriti dalle incombenze, le braccia e le nuche arse dal sole. I loro gesti sono insostituibili dalle macchine. Al rumore degli attrezzi e agli echi di una radio si sovrappongono brevi scambi di battute tra chi filma e chi è filmato: “Sono due anni che c’è una siccità incredibile. Non sappiamo come faremo”. Gli agricoltori si muovono in campi spopolati, distese di pale eoliche, presso cartelloni che denunciano l’inquinamento elettromagnetico. La terra sta soffrendo e si avverte la minaccia di una fine, l’urgenza di un cambiamento che non sappiamo se avverrà.

Frame tratto da “L’heure du Berger” (2008)

N’avons-nous pas toujours été bienveillants? è il volume che raccoglie opere di Creton e di Vincent Barré introdotte da un saggio del critico Cyril Neyrat, già autore del libro-intervista Cultiver, Habiter, Filmer (Independencia Editions, 2010) con illustrazioni di Antoine Thirion. Qui si tratta di compiere un percorso attraverso un’amicizia al lavoro e nel lavoro, che permette di apprezzare la dimensione collettiva della produzione di Creton tanto nella scrittura quanto nella realizzazione. I film brevi qui riuniti sono stati programmati al Réel insieme a Le bel été (2019), opera importante di autofiction sentimental-politica che racconta il mutamento dei rapporti in un trio di amici (Simon alias Pierre Creton, Robert alias Vincent Barré e Sophie alias Mathilde Girard) che durante l’estate accoglie alcuni giovani rifugiati africani. I nuovi arrivati portano effervescenza, desideri nuovi, convivialità allargata, ampliano e ridisegnano il perimetro del gruppo. Il film chiama in causa le sfumature chiare e oscure della benevolenza, definita da Barthes come quella forma d’amore caritatevole che tende verso l’eros ma si trattiene. Per il semiologo, questo sentimento ha due possibili configurazioni, quella umida e quella secca: la prima corrisponde a un desiderio sublimato per via di sospensione che garantisce alla controparte un’indipendenza libera da ricatti emotivi; la seconda è una bontà tanto distaccata da risultare indifferente. Tutti i personaggi del film oscillano tra questi due poli muovendosi in un campo di tensioni che relativizzano il potere dell’occidente bianco. La frugalità della vita in campagna nutre e lenisce lo spirito di chi ha sofferto lasciando intravedere possibilità di evoluzione che però restano sospese, aperte all’inatteso. La vitalità luminosa e aerea de Le bel été trova nei sei minuti di Un dieu à la peau douce (2019) il suo corrispettivo notturno, terrigno, carnale, con la storia di un complicato ménage à trois tra alcuni dei personaggi del suo film gemello.

Quello di Creton è sempre un cinema del crinale, della soglia tra documentario e finzione, tra vita e morte, tra luce e ombra, tra domestico e selvaggio. Il suo più compiuto esempio è Va, Toto! (2017) un film dalla struttura articolata, scritto dal regista insieme a Vincent Barré, Mathilde Girard e Pierre Trividic come fosse una partitura contrappuntistica che intreccia diverse linee melodiche per raccontare uno struggente rapporto umano-animale. Il titolo è un bel gioco di parole che richiama la località dove vive il regista ed è ambientata la storia, Vattetot-sur-mer. Come in molte zone rurali, anche lì c’è il problema dei cinghiali che devastano gli orti e il Comune prova a risolverlo autorizzando la caccia. Toto è il nome con cui viene battezzato un cucciolo di cinghiale scampato a una di queste battute di caccia. L’anziana Madelaine lo accoglie in casa come un animale domestico, lo nutre con il biberon, lo porta a passeggio insieme ai cani, lo fa dormire in una cesta calda. Toto cresce per lo più nell’ostilità della comunità che teme possa un giorno far danni come poi puntualmente accade. Creton segue da una parte la resistenza di Madelaine che forse “nel medioevo sarebbe stata accusata di stregoneria e messa al rogo” e dall’altra resta mesmerizzato da questo animale enigmatico, allo stesso tempo destinatario di affetto e immagine dell’estraneità assoluta all’umano, alle sue leggi e alle sue proiezioni simboliche.

Il cinghiale è una presenza arcana che mi riporta alla mente un ricordo personale. Quando avevo sette anni, la maestra ci fece svolgere un esercizio che ho ritrovato tra i vecchi quaderni conservati dai miei genitori: dovevo dire che cosa mi sarebbe piaciuto essere se non fossi stata un essere umano. Risposi che volevo essere un cinghiale e ne feci un ritratto a tutta pagina: maestoso e con un fiorellino rosa tra le zampe. In un foglio elencai cinque ragioni della mia scelta: perché è forte e ha le corna, perché è libero, perché mangia tanto, perché vive nel bosco, perché è un po’ feroce. Non sono sicura di aver scelto il cinghiale in piena coscienza, non ho particolari ricordi legati a questa bestia o a sue rappresentazioni. Se leggo le risposte dei miei compagni, mi sembra che la mia fosse una provocazione, una forma di ribellione alla differenza tra le risposte soavi delle femmine (un tripudio di farfalle, ruscelli, cagnolini e pure una Biancaneve) e quelle muscolari dei maschi (pantera, leone, cane lupo). Non ho mai desiderato vivere nel bosco come una bestia feroce ma credo che il cinghiale fosse intuitivamente il mio modo di esprimere un desiderio di libertà, di oltrepassare le attese e i confini normati del linguaggio. Quanto scrive Cyril Neyrat su Va, Toto conforta questa ipotesi: “L’image est du règne animal, écrivait Fernand Deligny, voulant dire par là qu’elle partage avec les bêtes le privilège de ne pas être asservie au langage. On ne parle pas aux bêtes, sauvages ou domestiques: on les regarde vivre, se mouvoir, dormir, on peut aussi les suivre et s’ouvrir dans leur sillage à un devenir-animal. Le silence des bêtes nous impose de les y rejoindre, leur compagnie nous accorde des plages d’existence libérées du langage, de son emprise sur le monde sensible”.

© CultFrame 03/2021

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