I cliché del non più giovane Muccino

Frame dal film Baciami ancora di Gabriele Muccino
Frame dal film Baciami ancora di Gabriele Muccino
Frame dal film Baciami ancora di Gabriele Muccino

La precarietà dei sentimenti, la fatica di mantenere vivo negli anni il rapporto di coppia, il cambiamento dell’arrivo di un figlio… Il cinema italiano, negli ultimi tempi, ha focalizzato sempre di più la sua attenzione sulla famiglia, nucleo di quella società le cui trasformazioni sostanziali ne hanno mutato profondamente l’aspetto. Che sia “allargata” o tradizionale la famiglia e, in prima istanza, la coppia è un tema che stuzzica l’interesse dei nostri registi e Gabriele Muccino è, in questo senso, esemplare.
Il suo L’ultimo bacio venne salutato come il manifesto di una generazione, quella dei trentenni, che cercava  una via di fuga dall’insoddisfazione di un’epoca già fuori dall’edonismo degli anni Ottanta e che sembrava imporre il rampantismo degli smaltati Novanta. I giovani mucciniani erano i Peter Pan costretti a crescere loro malgrado, messi di fronte alle responsabilità di un lavoro che gettava le basi di una carriera e di un rapporto a due che doveva necessariamente sfociare nel regolamentera matrimonio con prole. In tutto questo, però, si facevano strada i colpi di testa, le sbandate per le liceali, la voglia di mollare tutto e partire verso continenti che, come le loro anime, parevano altrettanto inesplorati. Era il 2001 e, rivedere ora quel film è come sfogliare un vecchio album dove le foto, anche se non troppo sbiadite, risultano inesorabilmente “datate”.

A distanza di dieci anni Gabriele Muccino ha sentito la necessità di un sequel e con Baciami ancora intende ripercorrere quei sentieri di sentimenti e di inquietudini che oggi appartengono ai quarantenni. Riproponendo (quasi per intero) il vecchio cast, il regista romano mette in campo, in modo ancora più evidente, una serie di cliché generazionali che, di fatto, non aggiungono nulla alla storia – alle storie – che avevamo lasciato nel primo film. Qualche filo grigio tra i capelli e qualche chilo di troppo che, come il fatale “”mborghesimento” di qualcuno di loro, appesantiscono l’atmosfera e i personaggi. La passione mai sopita e il tradimento, la paura di vivere e quella di amare, la difficoltà di essere genitore e la voglia di sentirsi ancora figli sono i fili che si intrecciano a formare quel tessuto narrativo, ormai fin troppo riconoscibile, di Muccino che, anche a distanza di anni, reitera se stesso. In tutto questo tempo, in fondo, che cosa è cambiato? L’età certamente, il conto in banca (forse), i bambini sono cresciuti ma le ansie e quel senso di sgomento profondo, scandito dalla voce fuori campo del protagonista Accorsi, è rimasto ancora lì, stampato come un marchio di fabbrica, quello dei “baci mucciniani” appunto. La famiglia è, ancora una volta, tormento e desiderio e l’amore, anche se vagheggiato dai più romantici (Accorsi e Favino), falsamente allontanato dai più cinici (Marco Cocci e Giorgio Pasotti) e addirittura calpestato dai più fragili (Claudio Santamaria) resta, nonostante tutto, l’unica possibilità di (auto)realizzazione. Non c’è banalità in questo, semmai nel modo di raccontarlo.

Frame dal film Casomai di Alessandro D’Alatri
Frame dal film Casomai di Alessandro D’Alatri

Il cinema di casa nostra, negli ultimi anni, non ha mai perso – ma forse solo incupito – il senso del sentimento tuttavia laddove Muccino gioca, e stavolta nemmeno troppo abilmente, con i cliché, altri hanno saputo cogliere, nella coppia intesa come motore narrativo di una storia, le sfumature oltre lo stereotipo. Due film, che si collocano esattamente un anno prima e un anno dopo L’ultimo bacio, potrebbero essere un esempio: Un amore di Gianluca Maria Tavarelli (1999) e Casomai di Alessandro D’Alatri (2002). Un “trittico” di titoli molto diversi tra loro ma uniti dall’intento di raccontare l’amore e, soprattutto, la paura e, perché no?, anche il “rischio” di amare.
Tra i due film, la vicenda di Casomai (a distanza di 8 anni ancora più che attuale) è quella più chiaramente riconducibile ai temi toccati da Muccino ma pur partendo da una simile base – la coppia e i suoi derivati – sceglie un percorso narrativo ben diverso. Non soltanto cinematografico (con l’idea del racconto/flashback durante le nozze tra Fabio Volo e Stefania Rocca) ma, soprattutto, emotivo. L’autocompiacimento drammatico, fatto di urla, lacrime e tante (troppe) porte sbattute che pervade la pellicola di Muccino si contrappone all’ironia con la quale D’Alatri guarda i suoi due protagonisti. Anche loro soffrono e si tradiscono, piangono e si fanno del male ma ogni piccolo, banale evento della loro storia attinge da un realismo quotidiano nel quale è infinitamente più semplice riconoscersi.

Quella di Casomai non è, e non vuole essere, “la storia di tutte le storie d’amore” (come recita il sottotitolo di Baciami ancora) ma mantiene intatto un senso di verità  che coglie perfettamente quell’ inquietudine dei sentimenti e la difficoltà di scegliere un unico compagno/a per la vita, ormai tipici della società contemporanea. Senza pretendere qualsivoglia universalità, il film di D’Alatri rende più facile – semmai ne abbia avuto intenzione – quel processo di identificazione con la generazione degli adulti di oggi presi tra quegli ingranaggi che, inevitabilmente, ci appartengono: lavoro, riconoscimento sociale, un non facile equilibrio di coppia e i rapporti con gli amici. Anche su questi ultimi, intesi non solo come corollario ma come un vero e proprio collante emotivo, D’Alatri e Muccino divergono notevolmente. Se in Baciami ancora l’amicizia non è che una cameratesca complicità fatta di bevute e di consigli frettolosi tra gli uomini e di qualche intima confessione tra le donne, in Casomai è molto più realisticamente “invadente”, certamente meno buonista ma con quella punta di acidità e talvolta di malizia delle quali, almeno una volta nella vita, tutti noi abbiamo avuto esperienza. La difficoltà di mantenere l’armonia nel rapporto di coppia che Muccino fa gridare ad ognuno dei suoi attori è da D’Alatri espressa nell’efficace metafora dei pattinatori, simbolo di una grazia e di una simmetria intese come risultato finale di un faticoso e costante allenamento.

Anche alla città, non come sfondo di una storia ma appartenente ad essa, è dai due registi affidato un ruolo di differente importanza. In Baciami ancora Roma entra prepotentemente nell’inquadratura, ostenta la sua bellezza che si fa quasi sfacciata negli scorci del centro per poi mostrare una periferia che ha il volto mesto (ma non troppo) di una donna che ha rinunciato al trucco. In Casomai Milano è una presenza discreta della quale si lascia solo intuire il fascino sotteso, riservato spesso ad un cielo plumbeo, per poi far esplodere, lontano dal centro urbano, i colori di una campagna raggiante come una coppia di sposi.
Se il cuore ha, come è ormai noto, ragioni che la ragione non conosce il cinema, grazie alla sua straordinaria potenza espressiva, può ancora continuare a sondarne il mistero. Un film non darà certo una risposta ma, come ogni forma d’arte, fornirne un’interpretazione il cui valore si misura nel tempo, attraverso quel passaggio che separa il “passato” dal “superato”.

© CultFrame – Punto di Svista 01/2010

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