Robert Capa ⋅ Maestri della fotografia

Immagine di Robert Capa pubblicata sulla copertina di LIFE nel 1945

Robert Capa. 1913 (Budapest)  – 1954 (Thai-Bihn, Vietnam)

Quando nel 1936 Endre Friedmann e Gerda Taro inventarono Robert Capa, stavano solo cercando un modo per sbarcare il lunario; non potevano sapere che, invece, stavano dando vita a quello che sarebbe diventato non solo uno dei più grandi fotografi di guerra di tutti i tempi, ma addirittura l’emblema stesso del fotoreportage. Infatti, nel corso della sua carriera (dalla metà degli anni Trenta al 1954), Capa ha ottenuto una fama e una credibilità tali da essere ormai noto anche a chi non è esperto del settore. Le sue immagini (stimate in più di 70.000) hanno immortalato gli avvenimenti più importanti della prima metà del secolo.

Come inviato, ha fatto reportage in cinque diverse guerre: civile spagnola, seconda guerra mondiale, conflitto in Cina, prima guerra arabo-israeliana e conflitto in Indocina. Per ognuna di esse è riuscito a raccontare i momenti salienti attraverso immagini diversificate: a volte, ha realizzato immagini-icona (celebre è quella scattata in Spagna nel 1938, dopo la vittoria definitiva del dittatore Franco, durante un raduno di volontari delle Brigate Internazionali visibilmente delusi per la sconfitta e che alzano con fierezza il pugno per riaffermare comunque le proprie idee); altre volte, immagini di denuncia, come quando a Madrid nel 1936 ha inquadrato, di fronte a un muro devastato dai segni della guerra, tre bimbi seduti sul marciapiede a giocare oppure come quando in Cina nel 1938 ha ripreso, dal basso verso l’alto, il viso di un bimbo con l’elmetto e la divisa militare; ed ancora immagini di momenti “nascosti” e amari, come quando a Lipsia nel 1945 ha ripreso su un balcone un soldato americano (immerso in una pozza di sangue), ucciso dai cecchini oppure il paracadutista impigliato nei fili della luce; a volte, ha rivelato nelle sue fotografie il suo gusto estetico, come quando a Barcellona ha ripreso, con un’inquadratura che sembra accuratamente studiata, da una parte la mamma con la figlia e dall’altra parte un gruppo di persone che guardano in alto; sporadicamente, ha mostrato il suo senso ironico, basti pensare alla fotografia del bimbo seduto sul carro armato mentre si mette un dito nel naso.

Capa, oltre ad avere documentato avvenimenti storici, ne ha immortalato anche i protagonisti, come Trotzkij mentre parla a un comizio oppure Roosevelt mentre chiede informazioni a un siciliano; si è rivelato, inoltre, un abile ritrattista nell’utilizzare tagli e prospettive inedite, dimostrando sapienza compositiva; si pensi al bellissimo ritratto (di profilo) scattato a Hollywood a Ingrid Bergman, mentre è seduta su una poltrona con la testa abbandonata all’indietro oppure quando nell’agosto 1948 in Francia ha ripreso una modella sulla spiaggia, mentre in secondo piano Picasso le regge un ombrellino per proteggerla dal sole.

Tutte le sue fotografie sono in bianco e nero e sono state ottenute attraverso l’utilizzo di macchine leggere, come la Leica e la Contax: erano appena state introdotte nel commercio negli anni Trenta e, grazie al nuovo formato maneggevole e alle pellicole (anziché lastre), consentivano di essere portate ovunque, permettendo nuove declinazioni stilistiche. Si pensi alle foto scattate durante lo sbarco in Normandia nel D-Day: quel giorno Capa aveva portato con sé due Contax per riprendere l’avvenimento ininterrottamente per novanta minuti, realizzando settantanove foto, di cui purtroppo solo undici furono stampate e solo sei tenute. Tra l’altro, divenne famoso quel “leggermente fuori fuoco” che fu il risultato dello scatto in azione e della stampa frettolosa; tuttavia, quello che fu un errore tecnico, acquisì poi un valore semantico importantissimo, perché divenne il segno visibile della vera documentazione del momento.

Capa cercava sempre di essere il più vicino possibile alle situazioni che documentava; infatti, sosteneva: «Se le tue foto non vanno bene, vuol dire che non ti sei avvicinato abbastanza», un pensiero che consolidò nel 1942 durante un episodio raccontato dal giornalista Alex Kershaw. Un giorno Capa andò in una base americana a Chelveston e vide tornare i soldati mutilati dopo un attacco; allora, ripose la macchina, decidendo di non fare più il becchino, ma di partecipare in prima persona anche alle missioni più pericolose, nella convinzione che i combattenti avrebbero tollerato la sua presenza soltanto se avesse vissuto con loro la guerra. Da quel momento fece l’addestramento per imparare a lanciarsi con il paracadute e, col tempo, acquisì molta più esperienza di guerra di quanta ne avessero le truppe e gli esperti.
Questo suo atteggiamento era già emerso quando nel 1938 era stato pubblicato il reportage che aveva realizzato in Spagna con la collaborazione di Gerda Taro: il titolo è molto esplicativo, infatti è Death in Making [La Morte mentre si attua]. Forse il riferimento esplicito è alla celeberrima fotografia Il miliziano colpito a morte scattata sul fronte di Cordoba nel 1936 a un miliziano nel momento esatto in cui viene colpito e ucciso da un proiettile. L’immagine è diventata un’icona non soltanto della guerra civile spagnola, ma anche delle guerre in generale; però, è stata al centro di un lunga controversia fra chi sosteneva che si trattasse di una fotografia in posa e chi ne difendeva la veridicità, controversia che pare sia stata risolta qualche anno fa quando è stato identificato il soggetto dell’immagine (un certo Federico Borrell Garcia) e la data effettiva della sua morte. Anche se l’attendibilità della fotografia è importante da un punto di vista storico, da un punto di vista prettamente fotografico è stato molto più interessante il dibattito, perché poneva un problema spinoso: il fotoreporter deve sempre documentare la realtà così com’è o può reinterpretarla in modo più o meno velato fino all’estremo della ricostruzione di una scena? Il fotografo Christian Caujolle, direttore dell’agenzia francese Vu e curatore della mostra per il cinquantenario del premio World Press Photo, riferendosi espressamente alla fotografia in questione, ha recentemente dichiarato: «Troppe volte chiediamo al fotografo di essere neutrale. È una sciocchezza. Il fotografo prende posizione per natura, deve essere militante».

Il confine fra documentazione e interpretazione è labile, come fanno presumere diverse affermazioni fatte da Capa stesso che, in un’intervista del 1937, dichiarò che “la verità è l’immagine migliore” ma, dieci anni dopo, nell’avvertenza pubblicata sul suo libro intitolato Slightly Out of Focus, sostenne: «Visto che scrivere la verità è ovviamente tanto difficile, nell’interesse della verità stessa mi sono permesso ogni tanto di andare appena oltre, altre volte di fermarmi appena al di qua. Tutti gli avvenimenti e le persone descritte in questo libro sono accidentali e hanno qualche cosa a che fare con la verità». Inoltre, in un’altra occasione, aveva ammesso che: «La foto è una sezione di un fatto, che mostra la realtà vera a chi non era presente molto più di quanto possa fare l’intera scena».

Simili contraddizioni e problematicità fanno parte del personaggio e del mito di Robert Capa, contribuendo ad alimentarlo, se mai ce ne fosse bisogno. Infatti, Capa era noto per essere istintivo e indisciplinato, avventuroso e ironico, esuberante, amante del gioco, delle donne e del whisky, insomma amante dei piaceri della vita e della vita stessa, come ricorda in più occasioni il fotoreporter Ferdinando Scianna. Al tempo stesso, era professionale e inseparabile dal suo lavoro di fotografo di guerra (la odiava, ciononostante non riusciva a starne per troppo tempo lontano); inoltre, aveva lottato per affermare l’autonomia dei fotoreporter; infatti, sin dal 1938 aveva cominciato a pensare all’idea di creare una cooperativa di fotografi (progetto realizzatosi nel 1947 con la fondazione della Magnum) che ne tutelasse i diritti e la libertà. Capa era sensibile a una simile tematica, anche perché detestava qualsiasi costrizione, come si evince dalle parole che consigliò al collega e amico Henri Cartier-Bresson: «Guardati dalle etichette. Rassicurano certo, ma prima o poi qualcuno te ne affibbia una di cui non riesci più a liberarti […]. Se deve proprio esserci un’etichetta, assumi quella di “fotoreporter” e conserva per te stesso tutto il resto, in fondo al cuore».

Robert Capa era proprio come lo si immagina guardando alcuni suoi ritratti: sia che indossi la divisa militare con l’elmetto in testa e la sigaretta in bocca, sia che indossi un completo elegante con la pettinatura ordinata, si notano sguardo e sorriso ammiccanti che denotano un atteggiamento sicuro di sé e consapevole del fascino legato anche alla sua professione, come sottolineava chiaramente ogni volta che diceva: «Il corrispondente di guerra ha in mano la posta in gioco, cioè la vita, e la può puntare su questo o quel cavallo, oppure rimettersela in tasca all’ultimo minuto. Io sono un giocatore d’azzardo».

BIOGRAFIA

robert_capaEndre Ernö Friedmann, figlio di ebrei non praticanti proprietari di una sartoria, nasce il 22 ottobre 1913 a Budapest, da cui nel 1931 viene espulso per aver partecipato ad attività studentesche di sinistra contro il regime di Horthy. Emigra a Berlino che, in quegli anni, è il centro della sperimentazione fotografica e del nascente fotogiornalismo: inizialmente, si iscrive a giornalismo alla Deutsche Hochschule fur Politik; poi, dovendo mantenersi da solo, nel 1932 abbandona gli studi e comincia a lavorare nell’agenzia Dephot (che collabora con 2.500 fra giornali e periodici tedeschi). Nel giro di poco, da fattorino diventa assistente del fotografo Felix Man e il 27 novembre 1932 ha il suo primo incarico. Le sue fotografie sulla conferenza che Lev Trotzkij tiene allo Sportpalast di Copenaghen sul significato della rivoluzione russa a studenti danesi vengono pubblicate sul periodico Der WeltSpiegel.

Nel 1933, come molti altri artisti e intellettuali, è costretto a lasciare Berlino in seguito all’ascesa nazista; prima è a Vienna, poi per qualche tempo a Budapest (dove lavora per un’agenzia di viaggi), infine si trasferisce a Parigi. Lì frequenta il Café du Dôme a Montparnasse, conosce altri importanti fotoreporter (come André Kertesz, David “Chim” Seymour, Henri Cartier-Bresson) e Gerda Pohorylles (poi Taro), anche lei sfuggita al nazismo a causa delle sue idee comuniste. I due si innamorano e decidono di andare a vivere insieme; lei lavora per l’agenzia Alliance, mentre lui per un mensile giapponese ma, poiché i guadagni non sono alti, decidono di inventare una società composta da tre persone: Gerda (segretaria e responsabile della parte commerciale), Endre (assistente in camera oscura) e Robert Capa (un famoso, dotato e inesistente fotografo americano). In realtà, è Friedmann a scattare le foto, ma con questo stratagemma i due riescono a ottenere incarichi prestigiosi e a guadagnare molto di più. Dopo tempo, l’inganno viene scoperto, ma le fotografie sono talmente buone che le riviste continuano ad affidare loro degli incarichi. Perciò, da quel momento in avanti, Endre Friedmann diventa per sempre e per tutti Robert Capa.

Nel 1936 Capa e la Taro vanno in Spagna come inviati del settimanale francese Vu, diretta da Lucien Vogel, per realizzare un servizio sulla guerra civile. Riprendono le truppe che partono per andare a combattere contro il dittatore Franco, la gente terrorizzata in fuga dal piccolo paese di Cerro Muriano mentre viene bombardato dai fascisti, le battaglie in inverno, la vita devastata dei civili, donne sotto choc a causa delle bombe nel sobborgo operaio di Vallecas, i profughi nel porto di Malaga e, il 5 settembre, Capa scatta la famigerata fotografia intitolata “Il miliziano colpito a morte”, una delle immagini più controverse della storia della fotografia e che, una volta pubblicata su Vu il 23 settembre 1936, costringe il direttore Vogel a dimettersi. Intanto, il rapporto fra Capa e la Taro si fa difficile: lui le chiede di sposarla, ma lei rifiuta perché sta cercando una sua strada; per un po’ continuano a lavorare insieme ma, alla fine, Capa torna a Parigi, mentre Gerda resta a documentare la battaglia di Brunete. Purtroppo, la sera del 25, un carro armato investe la macchina su cui era salita e Gerda Taro muore all’età di ventisei anni. Robert apprende della sua morte il giorno dopo, leggendo la notizia su L’Humanité. Per quindici giorni si chiude nel suo studio e si ubriaca, non riuscendo a sopportare il dolore della perdita e il senso di colpa per non averla saputo proteggere.

Agli inizi del 1938 Capa parte per un nuovo servizio, questa volta in Cina: deve scattare fotografie e fare l’aiuto cameraman al regista Joris Ivens per il documentario I quattrocento milioni che avrebbe dovuto raccontare la resistenza cinese all’invasione giapponese iniziata l’anno prima. L’esperienza, però, è fortemente limitata dal controllo delle spie che sono state incaricate dalla moglie di Chiang Kai-shek di impedire loro di fotografare i comunisti di Mao Tse-Tung: soltanto i nazionalisti devono apparire come gli eroi contro l’imperialismo giapponese. In ottobre Capa torna in Spagna per riprendere, a malincuore, la sconfitta definitiva di chi si era opposto a Franco. Ma il 1938 gli riserva un’ultima sorpresa: in dicembre la prestigiosa rivista inglese Picture Post pubblica otto pagine di sue fotografie, proclamandolo il “più grande fotografo di guerra del mondo”.

In settembre del 1939 emigra negli Stati Uniti, dove ottiene per la rivista Life alcuni incarichi che sente come sempre più banali, così comincia a cercare un’altra opportunità che arriva nel 1942, quando Collier’s gli propone di recarsi in Inghilterra per fare un servizio sullo sbarco degli Alleati. La partenza avviene più tardi, nel 1943, quando salpa a bordo di una nave convoglio per l’Africa settentrionale. Capa documenta gli scontri fra truppe britanniche, francesi e americane contro quelle di Hitler, la liberazione della Sicilia e quella di Napoli, l’inasprirsi della guerra a causa anche dell’approssimarsi dell’inverno, lo sbarco ad Anzio e, nell’aprile del 1944, il drammatico D-Day. Continua a seguire le truppe nella loro avanzata, fermandosi soltanto di fronte alla liberazione del campo di Belsen: ci sono già tanti fotografi e, per la prima volta, ha come l’impressione che ogni nuova immagine di orrore non faccia altro che diminuire l’effetto complessivo. Il 7 maggio 1945, quando viene dichiarata in Europa la vittoria, Capa è a Parigi e si emoziona nel vedere la liberazione di quella che ormai è diventata la sua città adottiva.

Il 6 giugno 1945 arriva a Parigi l’attrice Ingrid Bergman. Capa la invita a cena da Maxim’s, a ballare in un locale di Montmarte e, dopo una passeggiata finale lungo la Senna, i due sono già innamorati. Cominciano a frequentarsi e, nell’ottobre del 1945, egli raggiunge la Bergman a Hollywood, dove sta girando il film Notorius di Alfred Hitchcock. Robert passa le giornate giocando a poker con John Huston e Humphrey Bogart e rivedendo amici, ma la pace lo annoia e la loro storia si intiepidisce, così rientra a Parigi. Scrive qualche lettera d’amore, chiedendo alla Bergman di lasciare Hollywood, ma nessuno dei due è disposto a rinunciare alla propria vita, così si incontrano un’ultima volta a Sun Valley, dove si lasciano in modo amichevole.

A metà aprile del 1947 Capa riesce a realizzare un progetto a cui pensava da tempo, cioè la creazione di Magnum, una cooperativa di fotografi che ne tutelasse i diritti. Coinvolge Henri Cartier-Bresson, George Rodger, David “Chim” Seymour, William Vandivert e trova John Morris, il suo primo cliente; i fotografi devono sviluppare l’idea di un reportage comparativo sulle famiglie del mondo (People are People), riprendendo ciascuno la vita di una famiglia in una nazione diversa. Capa e lo scrittore Steinbeck partono per Mosca il 31 luglio 1947, ma non riescono a fare granché, perché la polizia li ferma continuamente con la scusa del controllo dei permessi.

L’8 maggio 1948 Robert Capa è a Tel Aviv per documentare la nascita dello stato d’Israele: riprende il discorso del Primo Ministro, la prima sessione di gabinetto d’Israele, la folla vivace accalcata lungo le strade, ma anche l’inizio della guerra fra Israele e alcuni stati arabi limitrofi. Purtroppo, la censura è molto pesante e i corrispondenti come Capa, se sono impegnati a dare notizie dal fronte ebraico, sono costretti a sostenere la causa israeliana. Lo stesso problema si ripropone quando torna nel maggio del 1949 con lo scrittore Irwin Shaw per realizzare il progetto del libro Report on Israel: può fotografare l’arrivo di migliaia di esuli alla città portuale di Haifa, ma non il problema della diaspora palestinese. Della zona araba riesce a procurarsi da un fotografo arabo alcune immagini delle quali, però, soltanto una viene pubblicata sull’Illustrated col titolo “L’arabo errante”.

Nel 1954, mentre si trova in Giappone su invito dell’editore Mainichi Shimbun che vuole lanciare una nuova rivista fotografica, gli sopraggiunge un incarico improvviso di Life: deve andare per un mese in Indocina per sostituire un collega americano. Robert Capa raggiunge Hanoi agli inizi di maggio. Il 25 accompagna una missione militare francese da Namdinh al delta del Fiume Rosso; durante una sosta del convoglio lungo la strada a Thai-Bhin, Capa, con un drappello di militari, si allontana in un campo, dove calpesta una mina anti-uomo, rimanendo ucciso.

© CultFrame 03/2006

BIBLIOGRAFIA

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SUL WEB
CULTFRAME. Sguardi sul ‘900. Cinquant’anni di fotogiornalismo. Un libro di John G. Morris
Immagini di Robert Capa sul sito dell’Agenzia Magnum
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