Chi ha paura di Terrence Malick?

Natalie Portman e Christian Bale in “Knight of Cups” di Terrence Malick

Cosa avrà mai di tanto irritante il cinema di Terrence Malick? Perché è così divisivo il suo universo filmico? Come mai le sue opere riescono a stanare quei soggetti che nascondendosi dietro il facile esercizio della stroncatura schernente cercano di esorcizzare la loro sensazione di smarrimento di fronte ai suoi film? E soprattutto, quale atteggiamento impone lo sguardo di Malick al critico e al cinefilo che si avvicinano alla sua produzione artistica?

Per rispondere a tutte queste domande è necessario fare solo un piccolo sforzo culturale (nonché mentale) e cercare di uscire dal “ghetto” cinema, dai suoi codici rassicuranti, dalla mediocrità del “ben costruito”, dalla prevedibilità del “si fa così”, dalla paura che si nutre nei riguardi della libertà espressiva e di tutto ciò che spinge il nostro pensiero a valutare modalità creative e comunicative che non rispondano necessariamente alla nostra, spesso ristretta, visione delle cose.

Fa sorridere notare alcune reazioni scomposte (e in questo caso non parliamo di ironia perché l’ironia è una cosa seria e non ha nulla a che fare con il dileggio) a Song to Song (ma anche ad altri lungometraggi precedenti), reazioni dettate dall’incapacità di accettare che il cinema non sia solo un raccontino ben elaborato con dialoghi ben scritti (che cosa vorrà dire poi… ben scritti?) e tutte le inquadrature al posto giusto. E soprattutto che il cinema “accettabile” (ma potremmo spostare la nostra attenzione al teatro e alla letteratura) non sia solo quello che rispecchia le nostre idee, la nostra concezione del mondo e dell’arte e che rispetta le regole.

Olga Kurylenko in "To the Wonder" di Terrence Malick
Olga Kurylenko in “To the Wonder” di Terrence Malick

Ciò che risulta destabilizzante non solo di Song to Song, ma di tutta la più recente produzione malickiana, è il fatto che l’autore di The Tree of Life abbia debordato i confini del cinema e abbia collocato i tre elementi fondamentali di un’opera d’arte, ovvero poetica, stile ed estetica, nel territorio dell’eccesso (anche per quel che riguarda l’iterazione dello stile). E quest’ultimo è proprio il territorio dell’arte, non dei codici (consolatori) del cinema o di qualsiasi altra forma di espressione.

Rooney Mara in "Song to Song" di Terrence Malick
Rooney Mara in “Song to Song” di Terrence Malick

Terrence Malick è poi, palesemente un artista visivo e i suoi film vanno collocati in un ambito in cui l’immagine è tutto. Io non condivido minimamente il suo moralismo intriso di “fondamentalismo religioso”, ma tale aspetto è solo lo strato più superficiale del suo mondo espressivo. Il cinema di Malick parla per immagini. Lasciamo da parte dialoghi e voci fuori campo che alcuni situano nell’area del “ridicolo”. Nella storia del cinema quasi tutti i dialoghi sono “ridicoli”, e nessun grande cineasta è esente da ciò: da Bergman a Kubrick, passando per Antonioni e Pasolini (ma anche il termine ridicolo appare non appropriato in questo caso, e forse si dovrebbe parlare più che altro, di comico… ma ora non abbiamo il tempo di spiegare cosa sia il comico).

Ebbene, Malick, così come i registi sopracitati, appartiene a una categoria di autori che lavora esclusivamente sulla forza poetica dell’inquadratura, sullo stile e sull’estetica e non sulla storiella piena di contenuti (magari alti) e ben organizzati. Malick non rassicura lo spettatore, lo destabilizza, lo ubriaca, lo schiaffeggia e lo abbraccia, lo stordisce trattandolo con sincerità, non strizzando l’occhio al mercato, al politically correct o a un certo atteggiamento trendy radical chic. Dice la sua poeticamente ed esteticamente, eccede il cinema, si abbandona alle sue visioni filosofiche perché è inevitabile che sia così.

Jessica Chastain in "The Tree of Life" di Terrence Malick
Jessica Chastain in “The Tree of Life” di Terrence Malick

E se proprio dovessi identificare un tema visivo (ripeto: visivo) centrale nel suo cinema, dovrei concentrarmi sul concetto del “femminile”. Se, a tal proposito, parlassi approfonditamente delle attrici e dei personaggi che Malick fa sostenere alle sue interpreti e della recitazione cadrei in un clamoroso errore critico. Non sono i personaggi femminili recitanti che contano nel suo cinema, quanto piuttosto i volti femminili. Ecco, per capire Malick bisogna guardare i visi, i lineamenti e le figure di Olga Kurylenko (To the Wonder), Jessica Chastain (The Tree of Life), Natalie Portman (Knight of Cups, Song to Song), Rooney Mara (Song to Song) e tutto improvvisamente si farà chiaro.

Con buona pace di quegli addetti ai lavori che si occupano di chi sarà la madrina di “quel festival” o di quale abito ha indossato quella “tale presunta star” sul red carpet. E di quelli che rintracciano il ridicolo solo in ciò che li impaurisce e non in ciò che è veramente ridicolo.

© CultFrame – Punto di Svista 05/2017

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