William Friedkin, il cineasta dell’ambiguità e delle contraddizioni umane

Gene Hackman – Il braccio violento della legge (The French Connection – 1971), regia di William Friedkin

Non considero rilevanti, seppur comprensibili giornalisticamente, gli articoli commemorativi dedicati alle personalità del cinema (e non solo) che scompaiono. Sono (quasi) sempre agiografici, assolutori, prevedibili, schematici. Di fatto degli zuccherini post-mortem che non aggiungono nulla alla figura celebrata.
Se c’è, dunque, un modo di non rendere giustizia a determinati registi è proprio quello delle “santificazioni” che con la loro prevedibilità finiscono per sterilizzare totalmente anche soggetti di rara causticità.
In tal senso, racchiudere la personalità di William Friedkin (scomparso il 7 agosto 2023), in un coccodrillo giornalistico come tanti, sarebbe un vero e proprio errore culturale.
Perché? Perché Friedkin ha rappresentato un’anomalia non catalogabile nell’ambito della storia del cinema americano, in special modo in quella di Hollywood, e del cinema in generale.

Le sue opere sono state sempre politicamente scorrette (veramente), ruvide (fortemente), caratterizzate da un’ambiguità impressionante che rappresenta il rovescio della medaglia dell’angoscia esistenziale che trasuda da ogni suo film.
William Friedkin ha guardato il mondo non in modo moralistico, e addirittura al di là di una visione morale della realtà e della società. Proprio questo approccio gli ha consentito di esprimersi oltre la catalogazione etica di bene e di male. Aveva, infatti, compreso come i comportamenti della specie umana fossero stati sempre caratterizzati da una sorta di caos incomprensibile, mostruoso, distruttivo, contraddittorio, aspro, indecifrabile. Per Friedkin, in sostanza, non vi era altra possibilità se non vivere nella consapevolezza dell’atrocità del destino umano. 

Vivere e morire a Los Angeles (To Live and Die in L.A. – 1985), regia di William Friedkin

Altra superficialità da non mettere in atto è catalogare Friedkin come banale autore di genere. Il regista di origini ebraico-ucraine i generi li ha cavalcati, domati, smontati, destrutturati, cambiati, usati a proprio piacimento, li ha trasportati su un piano espressivo catartico dimostrando una personalità rara nel cinema americano, tra l’altro sporcandosi le mani con il sistema di Hollywood.
Guardateli i lavori più complessi di Friedkin: L’esorcista (1973), Il salario della paura (1977), Cruising (1980), Vivere morire a Los Angeles (1985). Scoprirete opere destabilizzanti, fastidiose, maledette, controverse, cattive, impietose, scorrette, acide, anomale, per taluni, addirittura, offensive e odiose. In alcuni casi, da condannare culturalmente. Girate con uno stile diretto, secco, realistico, sporco, le sue sequenze sono dense di ansia esistenziale, agitazione interiore (dei personaggi), orrore mentale.

In tal senso, è paradigmatico quello che per me è il suo capolavoro assoluto: Il braccio violento della legge (The French Connection – 1971). L’ossessione parossistica, violenta e inesauribile del poliziotto Jimmy Doyle, interpretato da Gene Hackman, nei riguardi del narcotrafficante che si è messo in testa di arrestare è niente altro che la rappresentazione narrativa della sua inquietudine esistenziale, del suo tragico tormento interiore, della sua frustrazione malata, della sua solitudine, della vacuità della sua vita. Elementi, questi, per altro magistralmente evocati da una New York stracciona, lurida, marcia e infernale.

La conclusione del film, ambientata in uno spazio metaforico (una fabbrica decadente e abbandonata) è niente altro che la visione onirica e dilatata espressionisticamente di un incubo ad occhi aperti che condurrà Doyle inevitabilmente verso il nulla.

© CultFrame 08/2023

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William Friedkin – Filmografia

 

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