Il Locarno Film Festival 2021 tra fede e speranza (nel cinema)

Frame tratto da “Seperti Dendam, Rindu Harus Dibayar Tuntas” (Vengeance is Mine, All Others Pay Cash) del regista indonesiano Edwin

Dopo lo stop forzato della scorsa edizione, il 74° Locarno Film Festival ha ritrovato il suo pubblico in piazza Grande e nelle numerose sale della cittadina ticinese. La sfida alla pandemia, per una rassegna che si era saputa reinventare ma non aveva potuto aggirare l’interdizione di assembramento al chiuso e all’aperto vigente in Svizzera nella primavera/estate 2020, è stata lanciata seguendo senza troppe rigidità il modello collaudato a Cannes (alcune proiezioni covid-free con accesso riservato a chi poteva esibire green pass, e tamponi gratuiti offerti con l’accredito, ma molte sale con soltanto l’obbligo di distanziamento e mascherina).

Emblematica del sentimento comune a organizzatori e spettatori/spettatrici, è stata l’inaugurazione con le autorità locali e il presidente del Festival Marco Solari in grande forma a dare personalmente indicazioni su come sveltire l’accesso della considerevole folla accorsa al Chiostro della Magistrale. Per poi aggiungere, nel suo discorso condito da citazioni di Churchill e Borges, che Locarno “non deve mai perdere il suo ancoraggio territoriale e il suo respiro internazionale” (cioè la manifestazione estiva dal vivo, aperta a tutti i generi di opere, accompagnata dall’uso accorto di piattaforme e proiezioni virtuali) e che la scelta di progettare un’edizione in presenza è potuta arrivare solo “sconfiggendo lo scetticismo e i lamenti delle prefiche” (parole perfino troppo dure che sembrano rivolte all’ex direttrice Lili Hinstin dimessasi in autunno). Significativa anche la scelta della preapertura affidata a Safety at Last! (1923) con Harold Lloyd e l’accompagnamento musicale dell’Orchestra della Svizzera italiana introdotta informalmente dal direttore Giona Nazzaro al grido di “Locarno 1, Pandemia 0: inizi la festa!”; lo stesso Nazzaro il quale, undici giorni dopo, chiuderà la cerimonia di consegna dei premi con la voce rotta dall’emozione.

A ribadire il concetto, in coda alla sigla consueta precedente ogni proiezione ufficiale è stato aggiunto quest’anno il cartello “Cinema is back”. E quale cinema si è dunque visto al 74° Locarno? Facile ricondurre al peculiare tipo di cinefilia incarnato da Nazzaro l’apertura dedicata a un action d’autore quale Beckett di Ferdinando Cito Filomarino, che già nel 2010 aveva portato al festival uno dei suoi primi corti, lo spazio concesso ad altri film di genere (con diverse commedie in Concorso) o i premi a John Landis e Phil Tippett, l’autore degli effetti speciali che ha dato forma agli immaginari di Lucas e Spielberg, Cameron e Verhoeven. Ma questo e altri elementi che si potrebbero citare sono in piena continuità con il carattere consolidato di una macchina che il neo-direttore conosce da tempo e che da anni allestisce un mix di cinematografie e titoli buoni per ogni tipo di palato.

Spiace però che l’attenzione al “territoriale” (sempre ottime le selezioni dei restauri mostrati della Cinémathèque suisse con gli omaggi a Reusser, scomparso l’anno scorso, e a Brandt nel centenario della sua nascita), ai tanti, troppi, progetti sviluppati con la collaborazione del festival stesso e promossi anche nei suoi concorsi principali con tutto lo sforzo retorico cui si è accennato non sia stata dispiegata per creare attorno alla prima mondiale del trittico Pathos Ethos Logos dei portoghesi Joaquim Pinto e Nuno Leonel Coelho la giusta attesa e l’incontro con un pubblico consapevole di stare andando a vedere qualcosa di più che un’opera terminale dedicata a un mondo che muore, bensì un cantico d’amore per un certo modo di stare al mondo e fare immagini (che sono e saranno sempre più “tutto quel che abbiamo”). Sarebbe forse bastato ripresentare E Agora? Lembra-me (2013) o assegnare un riconoscimento speciale a un lavoro non qualsiasi per ambizioni, traversie finanziarie, esito artistico. Come si dice nel capitolo Pathos, il tempo non esiste, c’è solo “un movimento delle cose”, ma bisogna augurarsi che la trilogia trovi presto in altri circuiti l’accoglienza che merita.

Frame tratto da “Seperti Dendam, Rindu Harus Dibayar Tuntas” (Vengeance is Mine, All Others Pay Cash) del regista indonesiano Edwin

Quanto alle sezioni competitive, il Pardo d’oro a Seperti Dendam, Rindu Harus Dibayar Tuntas (Vengeance is Mine, All Others Pay Cash) dell’indonesiano Edwin conferma una storica propensione locarnese per l’Asia e sottolinea l’originalità di un film che, attraverso l’incontro/scontro tra un lottatore tanto spietato quanto sessualmente impotente e la rivale di cui s’innamora, articola un discorso ben più stimolante di molte altre narrazioni circolanti in questo e altri festival che prendono le questioni di genere a pretesto per legittimarsi… e per lo più ignorate dalle giurie.

Nel complesso dell’ampio panorama di visioni di Locarno 2021, va rilevata la ricorrenza macroscopica di riflessioni tendenti al metafisico sulle umane sorti con un’insistenza particolare per i rapporti tra genitori e figli, di sangue o putativi. Ne è un esempio anche Zeroes and Ones di Abel Ferrara, Pardo d’argento per la Miglior regia che, con Ethan Hawke nella parte duplice di due fratelli apparentemente schierati su fronti opposti (un militare/cameraman e un “rivoluzionario”), porta sullo schermo le paure e i pericoli dell’era pandemica. Girato a Roma, interamente di notte e con estetica low-fi, il film avanza interrogativi in sostanza paragonabili a quelle di Pinto e Coelho rimettendo in questione il conflitto millenario tra cristiani e ‘infedeli’ in un mondo non più bipolare com’era stato per buona parte del secolo scorso. E interpellando al contempo il ruolo del cinema in tale scenario.

Il Premio speciale della giuria è stato invece attribuito a Jiao ma tang Hui (A New Old Play) di Qiu Jiongjiong, affresco di cinquant’anni di storia cinese narrata però dall’aldilà tramite la parabola di un attore defunto e della sua compagnia teatrale. Oltre alle menzioni speciali conferite fuori protocollo a Soul of a Beast ed Espíritu Sagrado, da segnalare che i Migliori attori (premio doppio) sono risultati Mohamed Mellali e Valero Escolar, coppia di autentici lavoratori che nel divertente Sis dies corrents (The Odd-Job Men) di Neus Ballús rimettono in scena le avventure quotidiane e picaresche di una squadra di idraulici, mentre la Miglior interprete femminile di quest’anno è Anastasiya Krasovskaya, protagonista assoluta di Gerda di Natalya Kudryashova, uno dei molti ritratti di personaggi alla ricerca di un proprio posto nel mondo (la Russia post-sovietica), diviso tra gli studi di sociologia, gli spogliarelli con cui se li paga e l’impegnativa assistenza a una madre psichicamente fragile.

Frame tratto da “Gerda” della regista Natalya Kudryashova

Nel finale di un altro film francese del concorso, Petite Solange di Axelle Ropert, l’adolescente Solange si rivolge ai genitori che si stanno separando affermando, disperata e lucida: “Non mi avevate detto che è così difficile vivere”. Una battuta che potrebbe essere pronunciata anche dai personaggi di quarantenni sconfitti e tossicomani raffigurati da Bonifacio Angius ne I Giganti. Analogamente, per converso, la giovane protagonista di La place d’une autre di Aurélia Georges, da un romanzo di Wilkie Collins, ha ricevuto dalla madre l’insegnamento di non “mordere mai la mano che ti nutre” ed è perciò ben consapevole della libertà di cui si priva quando per sopravvivere sceglie d’ingannare un’anziana dama e diventare sua lettrice di compagnia; mentre del Luzifer dell’austriaco Peter Brunner, prodotto da Ulrich Seidl, rimane memorabile soprattutto l’interpretazione della pastora e artista tedesca Susanne Jensen, madre rifugiatasi a oltre duemila metri di quota per lottare contro i demoni scatenati dalle violenze subite nell’infanzia e poi affogati nell’alcol, su cui il figlio psicolabile (Franz Rogowski) riverserà tutto l’amore malato ricevuto da lei stessa.

Temi simili, in forma diversa, hanno percorso anche il Concorso Cineasti del presente. Il Premio speciale della giuria, L’Été l’éternité di Émilie Aussel, è un racconto di formazione che disegna le varie fasi della cosiddetta curva del lutto in maniera meno prevedibile di quanto le premesse del plot sembravano annunciare. Il Pardo principale, Brotherood del veneto Francesco Montagner, è invece l’esito di alcuni anni di riprese effettuate in Bosnia con la complicità di tre giovanissimi pastori lasciati soli dal padre, predicatore islamico incarcerato una volta rientrato dalla Siria dov’era andato a dare manforte alle fazioni musulmane più radicali (nel cui finale si spalanca a un’ennesima sorprendente rifrazione con il personaggio di Ruben, l’eroe di Pathos Ethos Logos, che vaga cercando risposte al mistero del suo stare al mondo con in testa una luce frontale).

Frame tratto da “L’Été l’éternité” del regista Émilie Aussel

È stato poi consegnato un Premio per il miglior regista emergente a Il legionario di Hleb Papou, un incoraggiamento per la carriera del giovane regista bielorusso-italiano e alle intenzioni di un film non del tutto risolto e non sempre strutturato e diretto in maniera impeccabile. Sviluppato a partire da un corto omonimo presentato alla Settimana della Critica di Venezia del 2017, allora diretta da Nazzaro, Il legionario si affida alle performance del suo cast e riesce a inquadrare alcune prospettive sintomatiche della Roma contemporanea. L’ambizione di smascherare le contraddizioni del nostro paese tramite il conflitto di due fratelli, entrambi afrodiscendenti ma uno diventato celerino mentre l’altro è capofila degli occupanti lo stabile in cui sono cresciuti, non regge però al confronto con film recenti di altri giovani autori, quali La troisième guerre girato in Francia da Giovanni Aloi, o con la serie spagnola Antidisturbios di Rodrigo Sorogoyen, prodotto d’intrattenimento (e perciò assai discutibile) con al centro la questione dell’emergenza abitativa.

Il Premio per la migliore opera prima, trasversale ai concorsi, è andato a She Will di Charlotte Colbert, sorta di revenge movie femminista ambientato nella foresta scozzese (se ne potrebbe parlare come l’anti-Antichrist di Von Trier) che non andando tanto per il sottile è comunque ben centrato nel suo proposito ed esibisce una forza visiva notevole. L’autrice è infatti un’artista già nota a livello internazionale. Anche qui, un po’ come in La place d’une autre, una donna matura e dal forte temperamento e una giovane infermiera si ritrovano a lottare dalla stessa parte contro pregiudizi e privilegi patriarcali.

Non sono mancati neppure tra i documentari della Semaine de la critique ulteriori ritratti intergenerazionali, dai battibecchi madre/figlia delle due campagnole abbandonate a se stesse in Bukolika del polacco Karol Pałka, al premio speciale A Thousand Fires di Saeed Taji Farouky, che segue una famiglia di estrattori manuali di petrolio del Myanmar nel momento in cui il figlio più piccolo decide di lasciarli per cercare di diventare un calciatore professionista. Alla Polonia è andato anche il Grand Prix di questa sezione, giustamente assegnato alla singolare meditazione corale che Pawel Lozinski ha realizzato con Film balkonowy domandando per oltre due anni quale fosse il senso della vita a chiunque transitasse sotto al suo balcone. Meno invasivo di quello adottato in A man and a camera dall’olandese Guido Hendrikx – visto in altri festival dell’ultima stagione e che si parava con la sua camera di fronte a sconosciuti riuscendo a introdursi nelle loro case ma restando sempre muto – il dispositivo di Lozinski che si affaccia letteralmente fuori dalla sua finestra cercando l’incontro e il dialogo con il resto dell’umanità residente o passante per il suo quartiere di Varsavia appare un buon viatico per chi voglia ancora, e senza grossi mezzi, sperimentare con il cinema nonché un invito all’empatia da non trascurare.

In conclusione, va riconosciuto a Roberto Turigliatto d’aver saputo curare una retrospettiva, dedicata ad Alberto Lattuada, di quelle che sono diventate sempre più rare nei festival degli ultimi anni e che sarebbe bello potesse essere accompagnata da una congrua pubblicazione (per l’Italia e non solo).

© CultFrame 08/2021

SUL WEB
Youtube: La tavola rotonda consacrata il 9 agosto al regista Alberto Lattuada
Il programma de 74. Locarno Film Festival
Locarno Film Festival – il sito

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