Corpo sociale e corpi singolari ⋅ Donne e cinema alla Berlinale 70

Frame tratto dal film “Always Amber” di Lia Hietala e Hannah Reinika

Festival che si propone da diversi anni come molto attento all’inclusione delle donne davanti e dietro la macchina da presa, anche nella sua 70° edizione la Berlinale non ha fatto mancare nelle diverse sezioni del suo programma film diretti da registe, omaggi a grandi artiste come Ulrike Ottinger e Helen Mirren che hanno ricevuto rispettivamente la Berlinale Camera e l’Orso alla Carriera e opere incentrate su personagge alle prese con un mondo che riserva alle donne una vita di discriminazioni e ingiustizie. La sezione Panorama è quella in cui si sono visti i lavori più espliciti al riguardo. Tra questi, The assistant esplora la microfisica del potere in una compagnia di produzione cinematografica. Il nuovo film della documentarista Kitty Green (Casting JonBenet: Femen; The Face of Ukraine: Casting Oksana Baiul), regista indie avvezza alla rappresentazione di personaggi femminili calati in contesto di violenza strutturale, è un film a soggetto che apre uno squarcio sulle dinamiche servo/padrone nell’ordinario sistema di organizzazione/dominazione che regge gli equilibri di potere dell’industria del cinema (e non solo) con riferimenti palesi al caso Weinstein.

Jane è un’assistente di produzione assunta da poche settimane. Con sguardo freddo e chirurgico, la macchina da presa la segue nell’arco di una giornata intera di lavoro. Jane ha preso molto sul serio il proprio impiego perché rappresenta il primo passo indispensabile per realizzare il sogno di diventare una produttrice cinematografica. Questa posta in gioco legittima il sistema a imporre all’“ultima arrivata” giornate massacranti di lavoro senza mai una vera pausa, in uno stillicidio continuo di umiliazioni a cui ribellarsi è molto difficile. E dunque la ragazza obbedisce, svolge mansioni di segreteria ma deve anche preparare il caffè, pulire dove gli altri sporcano, occuparsi della lavanderia e delle medicine del capo, che ordina per posta farmaci contro le disfunzioni erettili. La ragazza tiene duro fino al giorno in cui, inaspettata, arriva una nuova assistente: giovanissima, bellissima, senza alcuna esperienza, il capo l’ha fatta volare direttamente dal paesello di cui è originaria e le ha prenotato una stanza in un grande albergo. Quando Jane torna in ufficio, le voci di corridoio la convincono che il capo ha raggiunto l’assistente in hotel e allora decide di reagire ma si troverà di fronte a un muro di gomma e alla minaccia di perdere tutto quello che ha, di non poter realizzare mai i suoi sogni. Dietro le ambizioni di un film di denuncia che, oltre a puntare il dito contro la soverchia maschilista del sistema produttivo à la Weinstein, mostra la normalizzazione della prepotenza che nel mondo del lavoro quotidianamente viene imposta da chi ha potere a chi non ne ha, The assistant è in realtà un film che rischia di risultare innocuo, perfettamente composto nella sua confezione visiva tanto prevedibile quanto troppo puntuale nel tradurre su schermo le istanze del #metoo. Parlare “dalla parte delle donne” è diventato un modo comodo per l’industria del cinema di lavarsi la coscienza senza mettere in discussione, ma anzi rilanciando, la propria stessa legittimità.

Non c’è dunque da stupirsi se in un mondo in cui essere “donna” significa essere usata come un oggetto di consumo, le persone più giovani si ribellano in primo luogo contro quel corpo che il potere usa come feticcio per giustificarsi. Nel documentario svedese Always Amber di Lia Hietala e Hannah Reinikainen, l’adolescente Amber decide di intraprendere la trafila medica che le consentirà di accedere alle operazioni di riassegnazione del sesso. Durante uno dei colloqui con la psichiatra dice che sono i seni a crearle i maggiori problemi perché da quelli gli uomini la identificano come “femmina” e si sentono autorizzati a guardarla con concupiscenza. Il film è un racconto di formazione che cuce tra loro alcuni filmini di famiglia e materiali girati da Amber stessa nell’arco di oltre tre anni con la videocamera affidatale dalle registe o postati su Instagram con il suo cellulare. Il processo di crescita porta Amber a interrogarsi sempre più profondamente sulla propria identità fino a capire che non è il suo corpo a essere sbagliato ma il modo in cui la società lo cala dentro schemi interpretativi opprimenti: “Se vivessi con i miei amici su un’isola deserta non ci sarebbero norme e allora non sarei qui”, confessa alla psichiatra. Così, quando arriva il giorno dell’operazione, Amber non sa più se la mastectomia è davvero ciò che vuole.

Frame tratto dal film “Petite fille” di Sebastien Lifshitz

Molto determinata a diventare una ragazza è invece Sacha, la piccola protagonista di Petite fille, ultima fatica del bravissimo documentarista francese Sebastien Lifshitz che torna a filmare una relazione madre-figlia dopo Adolescentes, presentato a Locarno nel 2019, e a chiamare in causa il tema della transessualità già al centro del precedente Bambi (2013). Se Amber è una persona “non binaria”, invece Sacha, che ha otto anni, vive in un mondo in cui o si è maschi o si è femmine e il suo problema è che lui si sente una lei. Per sua fortuna, Sacha ha il sostegno di una famiglia affettuosissima, con una madre impegnata strenuamente nella lotta per difendere il diritto della sua creatura a vivere la propria infanzia e vedersi riconosciuto dalla scuola il diritto a un’identificazione al femminile. In questa lotta contro l’istituzione scolastica tradizionalista e normativa, la famiglia e la bambina, che vivono nei pressi di Reims, ricevono un supporto determinante dal servizio sanitario dedicato a seguire casi di “disforia di genere” nella città di Parigi. Con lo sguardo sensibile che lo contraddistingue e l’abilità di costruire relazioni di fiducia con i suoi personaggi, Lifshitz narra in modo fluido e poetico la vita di una famiglia numerosa in cui ciascuno in prima persona è impegnato giorno per giorno nel costruire e difendere uno spazio condiviso d’amore e bellezza. Un inno alla libertà.

Libertà che caratterizza anche Vilma Azevedo, scrittrice brasiliana di racconti erotici e dominatrice professionista ritratta in Vil, má del giovane e talentuoso Gustavo Vinagre (Nova Dubai, Lembro mais dos corvos, A rosa azul de Novalis). La cornice di questo documentario-intervista – la preparazione di un film su Vilma – è un gioco con la frontiera tra finzione e realtà tanto quanto gli incredibili racconti di vita della protagonista, attratta dai chiaroscuri della sessualità sin dall’infanzia quando (ma sarà vero?) si trovò faccia a faccia con un esibizionista poi rivelatosi un assassino. Vilma Azevedo è in realtà lo pseudonimo di Edivina Ribeiro, alter ego creato da questa donna estremamente cattolica per autorizzarsi a esplorare tutti i recessi del desiderio attraverso la scrittura e il lavoro sessuale che l’ha portata a farsi interprete delle fantasie e dei fantasmi di centinaia e centinaia di feticisti e masochisti nel Brasile degli anni ’70. Tanto da finire nel radar della polizia segreta di regime che la contatta per apprendere da lei tecniche di tortura che la donna si rifiuta di trasmettere “perché quello che faccio è a scopo erotico non di repressione”. A Berlino, il regista è giunto con la sua protagonista e con l’attrice Juliane Elting che nel film legge brani delle prose di Vilma oltre a recitare colei che interpreterà la scrittrice nell’ipotetico film da farsi. All’anteprima berlinese di Vil, má Juliane si è presentata con due anelli recanti la scritta #metoo all’indice e all’anulare e alzando il dito medio all’indirizzo dei fotografi. Ancora una volta, Vinagre cala senza timore la macchina del cinema nelle profondità del sesso con un occhio a R.W. Fassbinder e uno a Shirley Clarke indagando la complessità delle dinamiche servo/padrone, oppressione/libertà, verità/menzogna, realtà/finzione che investono l’insieme delle relazioni tra gli individui e nella società.

Una concezione più classica dei problemi che si trova ad affrontare una donna in quanto tale è emersa anche nel concorso. In particolare, da Never Rarely Sometimes Always di Eliza Hittman, regista statunitense che alla sua terza prova nel lungometraggio approda alla Universal co-prodotta dal premio Oscar Barry Jenkins. Il film racconta la storia di una diciassettenne di un paesino in Pennsylvania che si scopre incinta e insieme alla cugina intraprende un viaggio a New York per abortire. Tra obiettrici di coscienza, maschi impuniti e un sistema sanitario che impone prezzi capestro, le due ragazze si confrontano loro malgrado con una realtà ancora violenta contro le donne nonostante le battaglie per l’autodeterminazione del femminismo anni ’70.

Frame tratto dal film “Gli appunti di Anna Azzori / Uno specchio che viaggia nel tempo” di Costanze Ruhm

A queste ultime rende omaggio uno strano film presentato in Forum: Gli appunti di Anna Azzori / Uno specchio che viaggia nel tempo di Constanze Ruhm, sorta di videoperformance che prende spunto da Anna di Alberto Grifi e Massimo Sarchielli (presentato a Forum nel 1975). Ruhm ci lascia intuire, senza argomentarlo approfonditamente, che Anna è un film importante ma in qualche modo sessista perché reo di aver sfruttato la sua protagonista. La riflessione sull’etica del documentario biografico stenta però a svilupparsi e si limita a una giustapposizione di qualche rush del film di Grifi e Sarchielli, materiali d’archivio sul femminismo italiano di cinquant’anni fa e ritratti di giovani aspiranti attrici odierne che potrebbero interpretare Anna in un film di finzione. Gli appunti è un esperimento ondivago, interessante ma irrisolto, che si interroga su come praticare oggi un cinema femminista capace di accogliere singolarità dissonanti rispetto alle norme che dominano il corpo sociale.

© CultFrame 02/2020

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