Il non (apparentemente) visibile nel libro Scorze di Georges Didi-Huberman

In un periodo come quello attuale in cui, in Italia, passano praticamente senza particolari problemi indegne operazioni di manipolazione delle immagini relative ai campi di sterminio nazisti (come se tutto fosse concesso in nome della propaganda mediatico-politica), ecco comparire nel mercato editoriale un piccolo significativo libretto edito da nottetempo (Roma, 2014). Il titolo è Scorze, l’autore Georges Didi–Huberman.

Il filosofo e storico dell’arte francese effettua in questo suo lavoro una sorta di cronaca sui generis di una sua visita al lager di Auschwitz – Birkenau. In verità, si tratta di una riflessione interiore su che cosa si “possa ancora vedere” (e secondo quale modalità di rappresentazione visiva) dentro un campo di concentramento/sterminio che, come lo stesso Huberman sostiene, da luogo di barbarie “è stato trasformato in luogo di cultura. Auschwitz come ‘Museo di Stato’ (…)”.

La strada scelta dallo studioso transalpino è stata quella del doppio percorso: testo scritto e immagini. Questa struttura è basata sul predominio comunicativo delle fotografie che avrebbero potuto svolgere benissimo il loro ruolo da sole, senza le parole che l’autore ha utilizzato per spiegare il loro senso.

Ma l’aspetto significativo di questa operazione consiste nel fatto che l’artefice di questo libro ha deciso di non riportare da questo suo viaggio gli scatti che avrebbero potuto semplicemente documentare/certificare la trasformazione di un campo di sterminio in ‘Museo di Stato’. Georges Didi-Huberman ha deciso, invece, di lavorare sul concetto di sguardo in modo filosofico nel tentativo di dare ancora oggi un vero sconvolgente significato all’atto del vedere dentro un luogo simile, che lui stesso definisce “(…) questa capitale del male dell’uomo che sa fare all’uomo”.

Ha lavorato, in sostanza, in senso evocativo, concentrandosi su tre elementi: il dettaglio, il paesaggio, la semplicità dell’inquadratura (priva di qualsiasi forma estetizzante). Ecco, dunque, la corteccia delle betulle di Birkenau, il fitto bosco composto dai tronchi del medesimo tipo di albero, una veduta ampia che potremmo intitolare (utilizzando una formula usata dal fotografo israeliano Simcha Shirman)  “paesaggio polacco”, un’inquadratura dal basso verso l’alto che ci fa vedere solo il cielo e le cime degli alberi, i riflessi di un piccolo specchio d’acqua, il particolare di un pavimento rovinato del Crematorio V. Quest’ultimo frammento visuale appare particolarmente importante: questo residuo ancora visibile comunica oggi, dal suo punto di vista, l’orrore della morte. È rimasto lì, per decenni (ignorato a suo tempo dai nazisti che si “dimenticarono di distruggere i pavimenti”) come un marchio gelido a confermare l’atrocità del luogo, il fardello angoscioso dell’assenza di tutti gli esseri umani sterminati.

Georges Didi–Huberman ha compiuto una riflessione visivo/creativa sulla Shoah di rara sensibilità, evitando di mostrare l’evidente e cercando, invece, di inoltrarsi nel non (apparentemente) visibile, nel già dimenticato, dando risonanza all’orripilante e agghiacciante “anima di quei luoghi” che oggi nella loro “presunta sacralità museale” non potranno mai restituire in modo preciso lo strazio intollerabile dello sterminio che i nazisti misero in pratica nei riguardi di ebrei, rom e sinti, omosessuali, disagiati psichici e fisici, slavi, comunisti, oppositori politici, testimoni di Geova. In tal senso, ha finito per compiere un’operazione (evocativa) simile a quella di Claude Lanzmann (autore del documentario capolavoro Shoah – 1985) con il quale, pur definendo necessaria la presenza del suo film nei cinema, non esita anche in questa occasione a polemizzare inutilmente.

Ciò che sostiene, in definitiva, lo storico dell’arte francese è che il terribile peso dell’assenza di tutti gli esseri umani che hanno trovato la morte ad Auschwitz-Birkenau non è rintracciabile tanto nell’apparato museale odierno quanto piuttosto in alcuni dettagli “nascosti” e nel luogo in sé: “nei fiori di campo, nella linfa delle betulle, in questo piccolo lago dove riposano le ceneri di migliaia di morti”. Questa impostazione contribuisce ad amplificare la percezione del dolore, a far diventare lo spazio del genocidio spazio della memoria, il tutto grazie alla fotografia e alla capacità dello sguardo umano, che prima di essere una funzione fisiologica è una prerogativa mentale, interiore.

Dunque, possiamo chiudere utilizzando un’affermazione dello stesso Georges Didi – Huberman “non si può…mai dire: non c’è niente da vedere, non c’è più niente da vedere”. Bisogna capire cosa far vedere e come, aggiungiamo noi.

© CultFrame – Punto di Svista 05/2014


CREDITI

Titolo: Scorze / Autore: Georges Didi – Huberman / Editore: nottetempo / Collana: figure / Traduzione: Anna Trocchi / Pagg. 74 / Anno: 2014 (2011, Les Éditions de Minuit, titolo originale: Écorces) / Prezzo: 10 euro / ISBN: 978-88-7452-467-9

0 Shares: