A lezione da Atom Egoyan

Frame dal film “Il dolce domani” di Atom Egoyan

Il regista canadese Atom Egoyan, autore di film come Exotica (1994) e Il dolce domani (1997), ha tenuto presso l’aula magna del Rettorato dell’Università della Tuscia una master class per gli studenti. Durante la giornata, organizzata dal Roma Fiction Fest in collaborazione con il Tuscia Film Fest, il cineasta di origine armena ha parlato di sé e del suo cinema, incentrato sul tema dell’identità e dell’elusività del reale, con grande disponibilità e generosità, partendo dal tema della scrittura…
Riportiamo, dunque, in questo articolo in maniera fedele alcune delle sue interessanti riflessioni che evidenziano una sua idea precisa di cinema e di rappresentazione del mondo, riflessioni utili proprio per tutti i giovani che vogliono avvicinarsi all’arte cinematografica.

“Quando scrivo una sceneggiatura, ho come un senso di proprietà nei confronti della storia e ho l’impressione di poterla girare solo io. Quando, invece, dirigo un film scritto da altri finisco per essere in conflitto tra ciò che mi è stato chiesto e ciò che vorrei fare. Cosa che non mi accade con il mio materiale perché questo sono io a plasmarlo! Quando lavoro per altri cerco, comunque, di trarre vantaggio da un punto di vista che non è il mio. Il mio ultimo film, Devil’s Knot (2013), non l’ho scritto io. La storia è quella di un fatto di cronaca: tre bambini di otto anni si avventurarono nel bosco e non tornarono più indietro. Dopo, vennero trovati i corpi ma, sulla scena del crimine, non c’erano impronte o segni. Furono messi sotto processo tre adolescenti che ascoltavano musica rock ma tutti pensavano che i tre condannati non fossero, in realtà, i veri colpevoli. E’ una storia interessante perché solleva il tema del rapporto tra realtà e finzione. Io mi sono trovato davanti la sceneggiatura e mi sono chiesto perché sono stato contattato proprio io… Se avessi scritto io la storia, in verità, l’avrei fatta finire in modo differente!”

“Ciascuno di noi, quando scrive, crea le proprie regole: se penso, per esempio, al mio film Exotica, lì il locale del titolo non è un semplice club privé così come il balletto non è un semplice strip-tease e anche il modo in cui si “toccano” i personaggi è particolare. Ciò che conta davvero, in questo film, è la fantasia, lo stato mentale. Come accade in tutti i miei lavori, non c’è solo il piano narrativo ed è difficile decifrare ciò che accade: c’è un crimine, un padre che cerca la figlia, insomma ci sono dei misteri da risolvere. Assistiamo all’evoluzione dei vari personaggi che convergono, poi, tutti in un punto. L’approccio alla storia attraverso il thriller serve a tirare dentro lo spettatore, con i suoi sentimenti. Inoltre, se lavori con grandi attori, loro intuiscono subito i significati profondi dei gesti e si danno da fare per renderli sullo schermo.”

“Anche per Il viaggio di Felicia (1999), ho scritto io la sceneggiatura e ho avuto il pieno controllo della storia. Sembra la vicenda di una ragazza incinta che va alla ricerca del ragazzo e incontra, strada facendo, un uomo gentile e disponibile. Quello che lei non sa è che lui è un serial killer. Anche noi spettatori, però, fino alla fine non vogliamo accettare la realtà. Qui, poi, c’è un elemento in più: la ragazza è incinta e, prima di ucciderla, lui vuole farla abortire. Noi non crediamo che lui sia un mostro perché lui, per primo, nega la realtà. Il modo casuale in cui arrivano le testimoni di Geova scatena in lui la presa di coscienza. A me, nel cinema, interessa proprio questo: gli incontri inattesi e le reazioni a catena che provocano. Le riprese del film, all’inizio, sono standard ma cambiano, man mano che cambia il personaggio. Un regista, in fondo, ha questi strumenti: gli attori, il movimento, il suono. Quando scrivo io una sceneggiatura, c’è sempre come il personaggio vede se stesso e come lo vede lo spettatore, poi c’è la collisione tra i due aspetti. Questo avviene anche in Chloe (2009), anche se la sceneggiatura non l’ho scritta io. Chloe è il remake di un film francese: io sono stato affascinato da questo mondo e mi ci sono tuffato dentro.”

“Ho un’ossessione per la negazione, a livello personale e collettivo. Ne Il viaggio di Felicia, il protagonista nega di essere un assassino, io mi sono chiesto “Perché sono così attratto da questo tema?”. Io sono armeno e nel 1915, durante la prima guerra mondiale, c’è stato il genocidio del mio popolo: gli armeni sono stati uccisi o deportati ma il governo turco ha sempre negato tutto ciò. Quando ho cominciato a lavorare ad Ararat (2002), mi sono soffermato proprio sul tema della negazione. Quello che io racconto nel film è un personaggio che rivede la propria storia, rispetto alla quale è confuso. Su questo stesso tema ho visto anche La masseria delle allodole dei Taviani. Anche per questioni importanti e difficili come questa, io credo che solo gli incontri tra le persone facciano realmente cambiare le cose! In Ararat recita Charles Aznavour, anche se, all’inizio, mi disse no. Lui è l’armeno più famoso e personifica lo spirito di quella generazione. E’ anche un attore sottovalutato perché, in verità, lui sa usare benissimo il proprio corpo: il modo in cui esce di scena, nel film, è lo stesso di quando canta una canzone. Bisogna conoscere bene non solo l’attore, ma anche la sua psicologia. Mi è capitato di scrivere lettere ad alcuni di loro che rifiutavano le parti che io proponevo. Queste lettere erano, secondo me, uno sprone per gli attori a guardarsi dentro e a capire le loro resistenze. Io cerco determinati attori perché, secondo me, hanno le qualità giuste. Per i primi film, ho coinvolto i miei amici: all’inizio, loro resistevano ma io li perseguitavo finché non accettavano perché secondo me avevano le caratteristiche necessarie.”

“Per me, gli attori sono fondamentali: quando giri, devi essere innamorato di loro. Oggi ci sono registi che, quando girano, stanno dietro ad un video: io, invece, voglio stare accanto alla mdp per esserci, quasi anch’io, nella scena. Gli attori anziani apprezzano questo atteggiamento mentre gli attori giovani, talora, si confondono. Per me la vicinanza, la prossimità è importantissima, altrimenti l’attore per chi sta lavorando? Il nostro lavoro consiste in questo: essere curiosi, cercare la persona giusta e spiegargli perché dovrebbe fare quel ruolo. Molti registi sono rapidi, impazienti mentre io amo parlare dei personaggi e delle situazioni. Per alcuni registi è buona la prima ma, per me, questa è una follia: c’è sempre qualche altro aspetto da esplorare. Naturalmente, quando ti trovi a girare con più attori, è difficile conciliare i diversi atteggiamenti di chi è pronto a girare più volte e di chi non lo è. A volte, gli attori sono “cattivi” tra loro: succede soprattutto con i ruoli minori. A quel punto, bisogna tenerli a bada! Anche ai tecnici bisogna, talora, ricordare l’importanza dell’attore perché sono troppo presi dai loro “tecnicismi”. Spesso, un regista strilla durante le riprese: in realtà, basta spiegarsi e far capire cosa serve. Strillare, invece, è controproducente: il regista, quando gira, è come un chirurgo, non deve lasciarsi prendere dall’emozione!”

© CultFrame 10/2013

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