Quattro notti di uno straniero ⋅ Un film di Fabrizio Ferraro

Un uomo, vestito di scuro, cammina lentamente nella notte. Attraversa le strade della metropoli parigina come un fantasma. La città è palcoscenico della connessione sospesa tra l’individuo e il mondo. Luci, palazzi, macchine parcheggiate, asfalto bagnato. Sono elementi di una realtà nella quale non è possibile stabilire relazioni se non attraverso sguardi, attese e silenzi. La metropoli si configura come una sorta di inestricabile labirinto mentale nel quale gli esseri umani, estranei a ogni idea di psicologia, sembrano statici (anche se camminano) e rapiti dall’idea stessa di contemplazione. Forse, proprio soffermandosi sul reale e vivendo pienamente lo straniamento nei riguardi del mondo può emergere una possibile, complessa, verità in grado di manifestarsi, però, esclusivamente nella dilatazione, fuori dal tempo e dalla storia, della percezione soggettiva.

Quatre nuits d’un étranger (Quattro notti di uno straniero), lungometraggio ispirato a Le notti bianche di Fëdor Michajlovic Dostoevskij, rappresenta nel percorso creativo di Fabrizio Ferraro, già ben delineato in Piano sul pianeta – malgrado tutto, coraggio Francesco! (2009) e Penultimo paesaggio (2011), la messa a fuoco di un concetto di cinema che non intende percorrere stilemi e strade comunicative tipiche della cinematografia industriale di oggi e della comunicazione dei nostri anni, basate sulla bulimia compositiva delle immagini, sempre più dense, debordanti e ossessive (di messaggi).
Le inquadrature elaborate da Fabrizio Ferraro colpiscono, invece, lo sguardo del fruitore per una solidità di composizione basata essenzialmente sulla sottrazione, sull’essenzialità dell’architettura visiva. Ma l’aspetto che più ha stimolato la nostra riflessione è la capacità del regista di edificare inquadrature apparentemente statiche e immutabili ma in realtà profondamente cangianti (dunque sottilmente dinamiche).

La durata di alcune immagini e i piani sequenza determinano un vero e proprio  ribaltamento creativo (e ciò ha, ovviamente, dei risvolti filosofici). Ferraro libera il suo sguardo dalle catene della costruzione di senso e dalla tirannia del racconto e lascia che l’inquadratura, nel fluire dilatato e indipendente del tempo, si autodefinisca in un processo di mutazione spontanea. L’autore si pone, dunque, nella condizione dell’attesa, quasi dell’agguato di stampo deleuziano, lasciando che l’inquadratura, la sequenza e l’opera filmica si costruiscano da sole.
Grazie a questa impostazione Fabrizio Ferraro cambia, una volta per tutte, gli equilibri prestabiliti (dal mercato)  riguardo la relazione tra soggetto guardante (lo spettatore) e oggetto guardato (il film). Il fruitore, infatti, non è più investito da un flusso unidirezionale di segni e significati ma è costretto a diventare elemento attivo nel processo di visione

Nel caso di Quattro notti di uno straniero, le immagini divengono spazi di ricerca, luoghi senza punti di riferimento precisi, territori di evocazione piuttosto che di rappresentazione. I due personaggi, un uomo e una donna che si relazionano in una sorta di raggelante (quanto tragicamente vero) vuoto comunicativo, divengono così fattori della composizione delle inquadrature esattamente come gli elementi urbanistici e architettonici della città. La possibile (scontata) storia d’amore tra i due protagonisti si disperde nell’inattuabilità della condivisione emotiva e si trasforma in puro meccanismo di spostamento e ricollocamento dei corpi nello spazio. Tutto è scarnificato, tutto è svuotato e ripulito. La vita appare come il riflesso mentale di una speranza individuale non verificabile, come una costruzione puramente psichica o un’allucinazione controllata che allude, forse, a ciò che è già stato o che non potrà mai essere.

I due personaggi si muovono con la lucida rigidità dello straniero, così come il regista, straniero a Parigi, riesce, nella sua particolare condizione esistenziale, a rendere il suo sguardo “largo e lungo”, allo stesso tempo capace di cogliere dettagli e di perdersi negli spazi ampi della capitale francese. La metropoli assiste indifferente, quanto pulsante, al lento e inesorabile spostamento nello spazio di soggetti umani, privi di un reale rapporto con la concezione convenzionale del tempo.

Si potrebbero chiamare in causa riguardo l’opera di Fabrizio Ferraro, cineasti come Robert Bresson, Jean-Marie Straub, Danièle Huillet e Michelangelo Antonioni ma limitarsi a livello critico a evidenziare tali punti di riferimento cinematografici significherebbe ingabbiare in modo sterile la poetica dell’autore di Penultimo paesaggio. Ferraro appare, invece, regista portatore di un’idea personale di cinema, un’idea che intende spazzare via ogni tipo di sovrastruttura nel tentativo di raggiungere una sorta di nuova visione dell’esistenza, non più eterodiretta dal sistema dell’arte e dello spettacolo ma veramente e profondamente libera.

© CultFrame – Punto di Svista 02/2013

TRAMA
Un uomo cammina per le vie di Parigi. Attende qualcuno al di fuori di un ospedale. Torna a casa lentamente, percorre strade, guarda il mondo. Poi, nella propria abitazione ascolta delle lezioni di francese. Una sera una giovane donna che esce dall’ospedale davanti al quale si apposta compirà un tratto di strada insieme a lui.

CREDITI
Titolo: Quatre nuits d’un étranger (Quattro notti di uno straniero) / Regia: Fabrizio Ferraro / Immagine e composizione: Fabrizio Ferraro / Testo: ispirato a Le notti bianche di Fëdor Michajlovi? Dostoevskij (cartelli tratti da versi di Georg Trakl) / Collaborazione alla realizzazione: Felice D’Agostino / Interpreti: Marco Teti, Caterina Gueli Rojo / Produzione: Boudu-Passepartout (co-produzione Rai Tre-Fuori Orario) / Distribuzione: Boudu / Origine: Italia 7 Anno: 2013; Durata: 90’

SUL WEB
Quatre nuits d’un étranger (Quattro notti di uno straniero) di Fabrizio Ferraro from Boudu on Vimeo.
Boudu

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