…E ora parliamo di Kevin. Un film di Lynne Ramsay

L’hai portato dentro di te, nutrito e aspettato. Quell’essere che ha preso vita nelle tue viscere dovrebbe essere una parte fondante della tua stessa unità, quel legame indissolubile di amore chiamato “figlio”. Questo è ciò che dovrebbe ma per Eva non è.
Generare Kevin è stata, per lei, una lenta discesa verso un baratro del quale, ostinatamente, si rifiutava di vederne la profondità e l’orrore. Perché la maternità, come si legge nell’omonimo libro da cui il film è tratto, “non vorrebbe mai essere raccontata” così.
Eppure tutto ciò è possibile e – per quanto agghiacciare possa sembrare – anche altamente probabile. Kevin non è il figlio che una madre sogna ma il suo esatto, raggelante, opposto. Da neonato urlante a bambino chiuso in un volontario mutismo, con lo sguardo duro conficcato come un chiodo in quello disperato della madre che cerca, invano, un segno, anche solo impercettibile, che possa farle scorgere un barlume di sentimento o, almeno, di un tenue, filiale impluso.
Il vuoto tra i due si dilata anno dopo anno, passa attraverso un’infanzia di strisciante, reciproca, avversione che Eva tenta di combattere attribuendo a se stessa la responsabilità di non amare abbastanza il proprio figlio. Cieca di fronte all’evidente rifiuto di Kevin, caparbiamente si convince che è “solo un bambino” pur cosciente, nel profondo, di un terrificante presagio.

Lynn Ramsay si addentra con …E ora parliamo di Kevin in un territorio insidioso e anche, emotivamente, pericoloso. Il legame materno e quella relazione tra due esseri che, visceralmente, sembrano appartenersi cela, spesso, inquietanti zone d’ombra che, come nel caso del vincolo tra il protagonista e sua madre, fungono da polveriere pronte a deflagrare nella tragedia.
Per raccontarne la spaventosa portata  la regista scozzese ricorre ad una narrazione frammentata e, in un susseguirsi di flasback, ci mostra il presente di Eva  incapace di liberarsi da un passato che, come un male incurabile, le sta erodendo la vita. Una storia fatta di brevi, quanto illusori, momenti di felicità, alternati a lunghi periodi di lacerante inquietudine all’interno di una famiglia (dal marito ai figli) che nasconde nell’ipocrisia di facciata uno spaventoso vuoto di senso. Peccato che esso, con tutto il suo carico di drammatiche e realistiche implicazioni, si perda nelle pretese autoriali della Ramsay che, con ellissi in esubero, tenta di esprimere il tragico finendo, invece, per soffocarlo. Si lascia andare a triti, quanto fastidiosi simbolismi, senza rinunciare ad (inspiegabili) incursioni nell’onirico con il risultato che ciò che doveva risultare – giustamente – disturbante finisce, purtroppo, per essere “disturbato” da una regia addirittura invadente che, in tal modo, cerca di distrarre l’attenzione da una sceneggiatura, in più punti, claudicante.
Una vera disdetta poiché, di fondo, questo film, contiene un messaggio potente e l’approccio alla tragedia – dal punto di vista della cronaca e scevra da ogni giudizio – è certamente  l’aspetto più interessante e coinvolgente.

Laddove la Ramsay decide di farsi da parte e lasciare la scena a Tilda Swinton si assiste ad un crescendo di pathos che sfiora la (pura, non ricattatoria) commozione. L’attrice inglese fa della sua Eva un ritratto straordinariamente doloroso, madre straziata dal senso di colpa e, nel contempo, donna che non cede alla resa di una maternità che sa di condanna. Perché qui il male non ha nulla a che fare con il soprannaturale o con la sua spiegazione di alternativa al Bene ma è, semplicemente (quanto terribilmente), un modo di essere o, ancor meglio, una possibilità di essere. Quella che la società civile rifiuta e che tenta di spiegare attraverso le “giustificazioni” della follia o della patologia, negando addirittura il pensiero che qualcuno privo di empatia o pietà nei confronti del prossimo possa esistere senza essere dichiarato insano.
Ed è in questa negazione e nella lotta di Eva contro la stessa Natura che risiede il significato più profondo e lancinante del film ma per portarlo a galla era necessaria una regia al limite del rigoroso, una narrazione chirurgica e lucida che sgombrasse lo spazio da inutili orpelli narrativi e lasciasse parlare gli eventi e i suoi protagonisti ma qui non restano che le prove recitative della Swinton e del giovane e talentuoso Ezra Miller ad illuminare di grazia, come fugaci lampi, la desolante amarezza di un’occasione mancata.

© CultFrame 02/2012

 

TRAMA
Eva mette da parte le ambizioni e la carriera per crescere suo figlio Kevin. La relazione con lui, fin dai primi mesi di vita, si rivela molto difficile. Kevin è un bambino particolare, taciturno e incline ad atteggiamenti crudeli nei confronti della madre. Eva tenta di conquistare il figlio in ogni modo e quando, a quindici anni, si rende colpevole di un crimine atroce, la donna cerca disperatamente di sopravvivere ad una tragedia che le ha rovinato la vita, lacerata dai sensi di colpa e dai sentimenti contrastanti che nutre nei confronti del ragazzo.

CREDITI
Titolo: …E ora parliamo di Kevin / Titolo originale: …And Now We Talk About Kevin / Regia: Lynne Ramsay / Sceneggiatura: Lynne Ramsay e Rory Stewart Kennear dall’omonimo romanzo di Lionel Shriver / Interpreti: Tilda Swinton, John C. Reilly, Ezra Miller / Fotografia: Seamus McGarvey / Musica: Jonny Greenwood/Scenografia: Judy Becker / Montaggio: Joe Bini /Produzione: BBC Films, UK Film Council, Artina Films e Reckinghorse Films / Distribuzione: Bolero Film / Paese: UK 2011 / Durata: 112’

SUL WEB
Filmografia di Lynne Ramsay
Bolero Film

 

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