Cinema e musica. Svidd Neger di Erik Smith Meyer, ovvero il terzo territorio

Siamo nel 2003. Il norvegese Erik Smith Meyer (Oslo, classe 1966), realizza il suo primo lungometraggio: Svidd Neger. Una commedia grottesca e brutale tesa sul filo dell’ironia, come se alla crudeltà venisse applicato il contrappeso di una comicità ora grossolana, ora demenziale, ora di un surrealismo ai confini della poesia. Un esempio stralunato di quella violenza d’autore che dall’ultimo Tarantino arriverà fino alla “coolness” dei fratelli Coen e al Killer Joe di Friedkin.
Autore della fotografia è un giovane Hoyte Van Hoytema (Lasciami Entrare, The Fighter), capace di rendere le gelide e desolanti geografie nordiche (paesaggistiche e umane) con magniloquente profondità, elaborando i contrasti cromatici in effetti di grande potenza visiva.

La musica, dunque. Per quello vengono assoldati gli Ulver, anch’essi di Oslo, coadiuvati dal compositore e musicista Trond Nedberg. Una band che nasce agli inizi del ’90 con presupposti black-metal (sostituendo il satanismo con letteratura e leggende), ma che compirà una parabola ascendente verso territori di avanguardia nei quali il recupero del rock progressivo, filtrato dalla sensibilità folk scandinava, si fonde con ambienti sinfonici e sperimentazioni elettroniche.
Quando gli viene commissionata la colonna sonora del film, il gruppo non è ancora assurto al Gotha del rock, ma gode comunque di una notorietà ampiamente superiore a quella del regista. Tra l’altro, mentre il film non sarà mai distribuito in Italia, il disco della colonna sonora riscuoterà da subito un discreto successo, incuriosendo i musicofili prima ancora dei cinefili, e invogliando i cultori dell’underground tout court a recuperare il dvd, anch’esso di difficile reperibilità.
Anche se le partiture degli Ulver sono capaci di sopravvivere benissimo da sole, sovrapposte alle immagini dimostrano un ruolo non solo funzionale all’opera nel suo complesso, ma in alcuni frangenti indispensabile alla comprensione del pensiero registico.

Meyer mescola diversi materiali contrastanti (assurdità, bizzarrie, efferatezza e una comicità distorta che è farsa di se stessa) in una sorta di eclettismo onirico di fronte al quale non è sempre facile orientarsi. Si può quindi scegliere di abbandonarsi all’esuberanza visuale-allegorica, o seguire invece gli indizi che conducono oltre l’estro e l’eccentricità, verso una critica precisa e consapevole.
In questo senso, dovrebbe destare sospetti la presenza massiccia di commenti musicali molto articolati. Una funzione essenzialmente metaforica e strutturale, che non solo pervade il tessuto filmico, ma lo arricchisce attraverso l’alternanza e talvolta la sovrapposizione di funzioni extra-contestuali, contrappuntistiche e poetiche. È come se, in determinati momenti e attraverso le musiche, il film stesso – prima ancora del regista – dicesse “qui sto facendo sul serio, ascoltate, c’è qualcos’altro”.

Senza bisogno di scorrere l’intera pellicola, lo spettro delle possibilità utilizzate è già esaurientemente proposto nei primi minuti. A partire dai titoli di testa, la volontà è quella di dare un imprinting fortemente drammatico allo spettatore, come un avvertimento di cui tenere conto nei frequenti cambi di mood che seguiranno.
Sfondo nero: due scheletrici accordi di piano riverberati languono e si alternano. Sotto, un palpitare ovattato, come deflagrazioni lontanissime. Lo scenario prima dello scenario evoca malinconia, perdita, smarrimento, desolazione. Con le prime sfocate immagini di un plotone di militari la partitura si apre, ampliando il proprio respiro. Gli archi tracciano lunghe note ricche di pathos e il rullare marziale dei tamburi scandisce un ritmo di guerra (quella, del tutto particolare, che si scatenerà di lì a poco). Da una nube di polvere il raccordo ci porta in mare aperto, dove una culla galleggia solitaria; il crescendo orchestrale culmina in un imponente accordo wagneriano, per poi spegnersi sullo stesso flebile bicordo iniziale.
Siamo da qualche parte in Norvegia. Conosciamo Norman, giovane in viaggio, l’alcolizzato Karl e la bella figlia Anna, in un’atmosfera giocosa che tuttavia non vuole nascondere tutta la desolazione e l’arretratezza in cui vivono i personaggi. Anziché sfumare sui primi dialoghi, la musica continua virando dalla tragica prefazione a un valzer più disteso, sostenuto dal pizzicato degli archi: il valzer di Re Karl. Il tre-quarti è un movimento circolare, perpetuo, adatto ad indicare il brio tanto quanto la prigionia dello spirito. E Karl è proprio questo, un ubriacone che sbatte tra le pareti dell’ignoranza e dell’isolamento. L’arrangiamento colto e sontuoso, poi, identifica la condizione illusoria di un poveraccio che si crede re, re di una landa desolata che non appartiene a nessuno.

Fine della sequenza. Altro stacco, altro tema musicale. Sul mare luccicano i riflessi dorati del tramonto, un ragazzino in ombra osserva assorto un altrove imprecisato, ascoltando una voce registrata. Gli accordi di piano iniziali adesso sembrano rimbalzare sulla superficie dell’acqua. Si tratta di Ante, orfano di colore che si crede “lappone di mare”, impegnato a imparare la lingua sami. Il motivo varia fino a cristallizzarsi in quello che sarà il suo tema ricorrente.
Che cosa sono dunque questi rintocchi rarefatti, tristi e carezzevoli? È la condizione dell’esule e dell’emarginato, di chi, privato dalla nascita di ogni riferimento identitario, lotta per cucirsene addosso uno nuovo, e vi si aggrappa per stare a galla, mentre una famiglia degenerata vorrebbe affogarlo nella sudditanza e nell’umiliazione. Tutti elementi che affioreranno in seguito con commovente evidenza, ma che già risiedono in queste poche note.

A completare il quadro, dopo un breve dialogo, il ricordo dell’uxoricidio di Karl ai danni della moglie Magda. Nel rappresentare la follia non si fanno sconti, grazie anche all’utilizzo del rallentatore. Solo alcuni elementi sono sonorizzati, ed è ancora la musica a spiccare in un primissimo piano molto più che sonoro. Per antitesi, a commentare la ferocia c’è un motivetto di chitarra bonario e sornione, sempre in tre quarti (poiché il valzer è il tempo di Karl), questa volta a firma di Nedberg. Vengono così prese le distanze da certa retorica della violenza, e allo stesso tempo passa l’idea di una totale mancanza di colpa nella coscienza allucinata dell’uomo. Lo confermerà il ripetuto accanimento verso lo spettro di Magda, il quale, in cerca di perdono se non di vendetta, otterrà solo di essere nuovamente ucciso.
La sequenza si chiude con la stessa culla dell’inizio, quella dove giaceva il neonato Ante, frutto del tradimento di Magda con un militare americano e per questo abbandonato in balia delle onde.

Secondo queste direttive formali, come in un poema sinfonico (ma con le dovute proporzioni) abbiamo quindi dei temi ricorrenti che suggeriscono aspetti non immediatamente rappresentabili sulla superficie dello schermo, e che contribuiscono a ricostruire le dinamiche del racconto ad un ulteriore livello di percezione.
La tendenza è quella di suggerire un approfondimento psicologico, un immersione nel territorio della narrazione; ma anziché amplificare emozioni e sensazioni attraverso procedimenti empatici, regista e compositore lavorano sulla differenza di senso tra suono e immagine. L’uno, addizionato (o sottratto) all’altra, dà come risultato un territorio terzo: il film.

© CultFrame 10/2011

 


CREDITI

Titolo: Svidd Neger / Regia: Erik Smith Meyer / Soggetto: Stein Elvestad / Sceneggiatura: Wenche Bakken / Direttore della fotografia: Hoyte Van Hoytema / Montaggio: / Interpreti: Kingsford Siayor, Eirik Junge Eliassen, Kjersti Lid Gullvag, Thor-Inge Gullvag, Guri Johnson, Frank Jorstad / Produzione: Filmfalken, Barentsfilm, Borealis, Nordland Teater / Distribuzione: Orofilm / Paese: Norvegia, 2003 / Durata: 87 minuti

LINK
Filmografia di Erik Smith Meyer
Jester Records. Il sito degli Ulver

 

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