Lunch Break ⋅ Mostra di Sharon Lockhart

Sharon Lockhart. Old Boiler Shop: Proud and Shaun, 2008. Chromogenic print, framed 124,1×157,7 cm

Partiamo dalla fine: otto still life di rispettive bottiglie di birra si snodano lungo la parete della galleria, facendo orgogliosa mostra di sé. Non sono una trita ripetizione della formula del pop americano, sebbene di quella storia siano intrise. Di fronte alle fotografie sono disposte delle teche che raccolgono una serie di figurine d’epoca di baseball della squadra dei Braves. Ogni figurina racconta di un uomo di forse quarant’anni fa, ognuno ha un volto che stupisce per la sua commonness. Sono i figli della Guerra di Corea, che avrebbero visto le Pantere Nere e il Vietnam, la rivoluzione sessuale, Kennedy, King e il successivo reflusso reaganiano, tutta la storia dell’America moderna che conosciamo. Tutto questo dopo, però, perché le figurine fissano un istante in cui quei volti sorridenti e quei ragazzi gagliardi, tesi come animali impagliati, sono ancora colmi di quel candido spirito americano che denota un carattere precipuo, quello degli albori dell’Occidente contemporaneo, sospeso tra la rappresaglia del blues e del rock e il fermento delle subculture giovanili, versus la fabbrica postfordista con i suoi fortissimi sindacati di categoria e le lusinghe dei piccoli privilegi della middle class, orgoglio e baluardo della nazione lavoratrice d’America.

Sharon Lockhart. Moody Mart, 2008. Chromogenic print, framed 104,2×129,7 cm

Sono eredi di quel mondo ancora intatto i lavoratori ritratti in Lunch Break, l’installazione che l’artista californiana Sharon Lockhart presenta negli spazi della galleria Giò Marconi di Milano. Incentrata sul momento di pausa di alcuni operai dei cantieri navali del Maine, l’opera è composta da fotografie, oggetti e da un video della durata di 80 minuti, il tutto realizzato durante un anno nel quale l’artista ha vissuto a stretto contatto con i lavoratori, osservando la loro vita e intessendo con loro dei rapporti interpersonali. Lunch Break si inscrive in un percorso di ricerca che Lockhart persegue da anni, scegliendo come soggetto gruppi sociali e umani peculiari che ritrae attraverso la fotografia e il video, come ad esempio nell’opera Pine Flat, dove l’indagine verte su un gruppo di ragazzi di una piccola comunità della California rurale.

I lavoratori dei cantieri del Maine al centro del progetto mantengono una sorta di innocenza che è la stessa che si intuisce negli oggetti fotografati dall’artista: il cestino del pranzo che ognuno personalizza e che racconta di chi lo possiede, fotografato come una natura morta della più tradizionale accademia, è altresì in grado di scartare la propria natura di pura merce attraverso quel racconto esistenziale che porta con sé. Quel cestino non è solamente un cestino per il pranzo, è un’esistenza, un carattere, un uomo che vive e lavora ed è quindi metafora di una condizione. Non è l’America dei losers di Duane Hanson, lo scultore iperrealista che ha rappresentato la faccia degli Stati Uniti più popolari, sebbene il reale sia il punto fondante della ricerca di Lockhart, né dalle parti della grande scuola reportagistica. Piuttosto, si potrebbe pensare all’epica di Bruce Springsteen, che si fonda sui paradigmi della grande narrativa americana. I lavoratori ritratti hanno la stessa dignità composta e la stessa bellezza delle figure della letteratura, anche quando portano un adesivo che recita “We build America” sul cestino del pranzo, una forma di bellezza che si ritrova anche nei piccoli banchetti del caffè e degli snack organizzati all’interno della fabbrica.

Sharon Lockhart. Panel Line Break Room: Roland, Phil, John and Shermie, 2008. 2 chromogenic prints, framed 124,7×155,2 cm

Non si pensi però che Lockhart sia artista facile ai sentimentalismi: la sua è una ricerca rigorosa e formalmente ineccepibile, che diviene emozionante grazie alla qualità estetica della sua produzione. Se c’è un elemento meno convincente all’interno della mostra, forse, è proprio il film di 80 minuti, la ripresa di una passeggiata nella fabbrica durante la pausa dei lavoratori dilatata fino alla durata di oltre un’ora. Da un lato, anche il video trattiene quello sguardo acuto sulla figura umana calata in un contesto sociale singolare e addirittura amplifica un senso di straniamento che nelle altre opere rimane sotteso, ma la scelta di una forma filmica “espansa” pare, a tratti, un po’ forzata. Lockhart si conferma comunque una delle figure più interessanti tra chi si avvale del mezzo fotografico e video, anche per la coerenza e la tensione del suo percorso artistico, documentabile attraverso le numerose esposizioni nei poli museali e nelle gallerie di tutto il mondo.

Lunch Break si può chiudere, sempre scegliendo arbitrariamente un alpha e un’omega, con il cestino di vimini, un elemento di innegabile forza che, collocato all’interno degli spazi tra la galleria delle foto, provoca un cortocircuito efficace tra reale e rappresentazione. Un oggetto “relazionale” che sarebbe piaciuto al filosofo Arthur Danto, lui che forse meglio di chiunque altro ha analizzato la problematica dell’oggetto comune che diviene opera d’arte, e che riesce a emozionare ricordando allo spettatore il filo che lega, molto più saldamente di quello che comunemente si pensi, l’arte alla vita quotidiana di ogni essere umano.

© CultFrame 02/2011

INFORMAZIONI
Sharon Lockhart – “Lunch Break”
Galleria  Giò Marconi / Via Tadino 15, Milano / Telefono: 02.29404373 / info@giomarconi.com
Dal 3 febbraio al 26 marzo 2011
Dal martedì al sabato 10.30 – 12.30 e 15.30 – 19.00

SUL WEB
Galleria Giò Marconi, Milano

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