Uno sguardo limpido ⋅ Intervista alla fotografa e filmaker americana Lina Bertucci

Lina Bertucci. Dark Wave, Luis, film still, 2011
© Lina Bertucci. Dark Wave, Luis, film still, 2011. Courtesy Cardi Black Box and the Artist

In occasione della mostra “Dark Wave” presso gli spazi della galleria Cardi Black Box di Milano, abbiamo incontrato e intervistato Lina Bertucci, fotografa e filmaker newyorkese.
Nata nel 1958 a Milwakee, artista attenta alla dimensione sociale e ai fenomeni legati alle sottoculture, Lina Bertucci spazia dal lavoro video alla fotografia, passando dal ritratto al reportage e al lavoro sul paesaggio.

In occasione della mostra ospitata dalla galleria milanese, Bertucci ha realizzato un doppia installazione site-specific che ritrae una serie di adolescenti, tutti appartenenti alla scena neogotica e vampiresca di New York. L’installazione presenta i video, della durata di due minuti, in una sequenza silenziosa: essenziale e apparentemente tautologica nella sua evidenza, l’installazione conserva una monumentalità che rimanda al ciclo dei landscapes dell’artista e, dopo un primo sguardo, calamita lo spettatore in un dialogo muto con i protagonisti del video. C’è una forma di disagio che s’insinua nello spettatore, oggetto dello sguardo dell’opera, e un magnetismo che si sviluppa durante il progredire della sequenza. Artista lontana dai trend e dai palcoscenici dell’arte più modaiola, Lina Bertucci eredita il portato delle avanguardie americane e lo mescola ai cultural studies di matrice anglosassone, coniugando una pulizia dello sguardo a tratti disarmante a una ricchezza di contenuti appena celata dalla sobrietà dell’impianto estetico delle proprie opere.

Nel tuo lavori hai affrontato il tema delle sottoculture, ritraendo un gruppo di donne tatuate: che cosa ti interessa dal punto di vista artistico di queste mondi marginali?

Mi sono sempre interessata alle sottoculture e nei miei primi lavori, proprio agli inizi, ho fatto una serie sui lavoratori delle ferrovie. Ero interessata alle comunità chiuse. E’ stato emozionante penetrare in un nuovo mondo che abitualmente non è possibile vedere. Ma non come un estraneo, piuttosto chiedendomi cosa significava per me. Ogni lavoro, specialmente quello sui tatuaggi, quello sulla scena dark wave, è sempre stato una questione di potere. Chi detiene il potere? Cosa significa per un ragazzo o cosa significa per me avere il potere? E per una donna si tratta sempre di una grossa questione. Ho combattuto con questa cosa per tutta la vita, con quanto potere diamo ai nostri genitori, al marito, alla fidanzata o al fidanzato, si tratta di un tema veramente universale.

Le sottoculture sono solo un altro modo per investigare un tema molto personale che mi ha sempre tormentato e con cui sono sempre un po’ in lotta. La società non è molto generosa verso le donne che dimostrano questa attitudine né verso le sottoculture, per questo mi identifico con questi soggetti e sento che ognuno di essi deve avere una voce, la possibilità di essere trattato equamente. Perciò non mi importa se loro sembrano bizzarri, mi piacciono.

Recentemente, nei media e nella letteratura c’è stato un ritorno prepotente della figura del vampiro, attualizzata e resa appetibile e “cool” anche a un pubblico di giovanissimi. Ho la sensazione che dietro queste operazioni di fagocitazione degli elementi eversivi insiti in alcuni personaggi o temi potenzialmente trasgressivi, come il vampiro, da parte della cultura di massa, ci sia una forma di annientamento, un’operazione per rendere innocuo l’oggetto “pericoloso”. Cosa ne pensi?

Penso che il vampiro sia una metafora dell’altro. Nella nostra cultura c’è molta intolleranza verso ciò che è altro: ciò significa minoranze, immigrazione, omosessualità e io credo che il vampiro sia veramente un “altro”. Lo utilizzo come un elemento sovversivo per parlare di intolleranza, perché in questa prospettiva è quasi “redentivo” e non è un freak-show, riguarda qualcosa di molto importante. Riguardo ai media sì, c’è un grande ritorno di questo tema. E’ un buon momento per occuparsi di questi argomenti.

Sei una fotografa e regista. Vuoi raccontarmi qualcosa della tua esperienza con il video e il cinema?

In questo progetto, ad esempio, la regia è stata davvero minimale e semplice. Come accennavo prima, ho voluto dare meno indicazioni possibili, fondamentalmente ho detto “Guardando in camera per due minuti state essenzialmente guardando lo spettatore, perciò siete in una posizione di potere. Potete guardarli nel modo che sentite, ma si tratta fondamentalmente del modo in cui lo fate”. Questa è stato veramente l’unica indicazione di regia che ho dato ai protagonisti del video perché come fotografa so che è necessario un lasso di tempo prima che il soggetto smetta di mettersi in posa e abbassi le difese ed è quello il momento in cui avrai le immagini migliori. Con il video o il film poi hai il vantaggio del tempo reale, per cui chiamo questi lavori “video-ritratti”, perché si tratta di inquadrature statiche, ma in tempo reale. E’ la qualità temporale il dato aggiunto. Si tratta di un carattere etereo e intenso, perché noi percepiamo il respiro, il battito delle ciglia, la varietà delle espressioni dei protagonisti.

Ho notato che molti giovani artisti che utilizzano la fotografia, scelgono sempre più spesso poetiche legate al cosidetto pop surrealismo, new folk e via diendo, privilegiando una forma di fiction o di ripresa di temi legati alla favola, al subconscio rispetto ad una indagine legata al dato reale. Tu come scegli i temi della tua ricerca e che rapporto hai con il tema della finzione e della messinscena?

Hai ragione, dagli anni ’90 la fotografia è cambiata molto, è stato un momento entusiasmante dove abbiamo visto grandi foto: tableaux e elementi di fiction sono venuti alla ribalta. In molti programmi di Yale e California sono emersi, è stata una cosa importante. Ciò che lega entrambi i generi è il subconscio e l’inconscio. Ci sono moltissimi temi archetipici del subconscio che mi interessano. Forse anche come alcuni dei lavori a carattere di fiction sono stati fatti, ma sono interessata alla cultura contemporanea e come fotografa e filmaker non c’è niente di più inquietante della realtà se osservata con attenzione. C’è una grande ricchezza dentro tale soggetto e ritengo che si possa arrivare molto in profondità semplicemente osservando, permettendo ad altri livelli dell’inconscio e ad altre domande di affiorare.

 Lina Bertucci. Dark Wave, Danielle, film still, 2011
© Lina Bertucci. Dark Wave, Danielle, film still, 2011. Courtesy Cardi Black Box and the Artist

Mi ha colpito il tuo lavoro sui paesaggi, che hanno una monumentalità sorprendente e una compostezza piena di forza, che mi riporta al sublime astratto delle neoavanguardie americane. In quelle foto l’elemento narrativo è ridotto al minimo, eppure sono molto dense.

Mi piace pensare al paesaggio come a un paesaggio mentale, un elemento mentale, in un certo modo narrativo e in un altro quasi ritrattistico. E’ stato durante i sei anni in cui ho vissuto fuori da New York, vicino a questo grande bacino d’acqua che ho percepito per la prima volta l’orizzonte, una visione espansa di cielo, nuvole e acqua. Non ho sentito un reale cambiamento nella mia visione, semplicemente mutava il soggetto, si trattava di prendere le figure e trasportarle da un interno all’esterno. Infine ho preso la figura e l’ho trasportata totalmente all’esterno, sono rimasta affascinata da ciò che dici. E’ il Sublime Americano. C’è una parte importante di pittura americana e di paesaggi legati al Sublime e questo è stato un grande impulso di energia per me, era molto emozionante. Adesso però mi sono trasferita, sono tornata a New York da cinque-sei anni ed è come se non ricordassi più l’orizzonte perché sono “verticale”, capisci, si vive in interni e sono quindi tornata ai miei ritratti in ambienti chiusi e ciò mi sembra giusto, mi sembra naturale.

E’ molto interessante il modo in cui si è in un luogo, la percezione del luogo influenza la tua visione nel lavoro, le due cose si assomigliano. Non mi sentivo come se improvvisamente avessi studiato qualcosa di diverso, è venuto naturale.

Nel progetto del Borgo San Paolo, quartiere operaio di Torino, che hai realizzato nel 2002 con la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, ti sei focalizzata su quattro luoghi simbolici: la chiesa, la scuola, la fabbrica e la famiglia. Hai ritratto le persone in questi luoghi, mostrando l’evoluzione sociale di un quartiere ma anche di un paese intero, e scegliendo di soffermarti sul rapporto tra gli individui e i luoghi architettonici che ne ospitano le vite. Questo tipo di lavoro mi sembra interessante perchè si situa sul crinale tra fotografia reportagistica e progetto d’arte. Ricordando anche il tuo lavoro sulle ferrovie, vorrei sapere qual’è il tuo metodo di lavoro quando ti approcci a questo tipo di ricerche.

E’ fantastico perchè molte persone non sanno nulla dell’antico lavoro delle ferrovie. E’ stata veramento il mio primo allenamento, perché non si trattava di un progetto che avevo scelto, avevo trovato inizialmente un lavoro e avevo bisogno di mantenermi. Avevo quasi diciannove anni, vivevo fuori casa. Dovevo trovare un lavoro per pagarmi gli studi e trovai questo. Non sapevo cosa significava entrare in un mondo totalmente maschile come le ferrovie finchè non fui effettivamente assunta, e fu uno shock.

Fu incredibile perchè era come fare un salto indietro di cento anni. Era fantastico ma anche triste, perché si capiva che era un mondo in decadenza e non era destinato a durare ancora a lungo.

Come studentessa d’arte avevo già approfondito la fotografia e conoscevo la tecnica. Presi la mia macchina, la misi in borsa e pensai “ok, comincerò fotografando questo”. Ma non voglio uscire dal seminato della domanda. Usai la macchina proprio come uno strumento per mettermi alla pari degli uomini perché erano piuttosto intimidatori. Non mi volevano, eravamo io e mio zia, che aveva sei anni più di me. Non ci accettavano perciò era davvero spiacevole. La macchina fotografica mi dava un senso di potere. Mi dava una possibilità di allargare il mio territorio, avevo bisogno di  coraggio perché loro mi apostrofavano, mi dicevano e facevano cose stupide. Cercavano di intimidirmi e la macchina fotografica è stata molto importante, è stata un modo per rompere il ghiaccio facendo degli scatti,  e qualche volta rendendoli più amichevoli – qualche volta, non sempre – creando delle situazioni divertenti. A volte dovevo solo scattare una foto. Non era sempre facile ma io ero molto felice. Lo feci perché si trattava di un importante periodo della Storia che mostrava veramente il declino delle Ferrovie Americane. Era veramente alla conclusione, non solo per il declino delle ferrovie stesse ma per l’intero sistema dell’industria che andava convertendosi all’era digitale.

Abbiamo visto le industrie spostarsi in città, chiudere… era la fine di un’epoca, un’epoca industriale che non sarebbe mai più tornata. Per questo era così interessante e sono stata felice di farlo. Parlare della storia del lavoro, delle ferrovie, del ruolo delle donne rispetto alla forza lavoro, insomma molti livelli. Oh, e sono rimasta affascinata dalle figure negli spazi interni, ero come un ingegnere nella centrale di comando, il comandante nella cambusa. Tutti questi piccoli spazi angusti, il buio e la luce della finestra. Tecnicamente, dovevo essere molto preparata perchè non è facile fotografare con questi contrasti di buio e luce, perciò ho imparato molto e sono diventata davvero brava dal punto di vista tecnico.

È stata un’esperienza importante per te…

È stato fantastico Sono stata davvero felice di fare quell’esperienza. Sono rimasta circa due anni, due anni e mezzo.

Un’ultima domanda: i tuoi progetti futuri?

I progetti futuri… Non so ancora. É interessante perchè non so se può esserti utile saperlo, ma sto studiando la pratica Buddista e sto riflettendo, come sempre, che è tutto molto oscuro, ma allo stesso tempo non lo è. Penso che dobbiamo guardare alle cose senza paura perchè la questione riguarda la nostra percezione. Se percepiamo le cose con chiarezza e apertura possiamo trasformarle.

(Trascrizione dell’intervista: James Trinca)

© CultFrame 05/2011

INFORMAZIONI
Lina Bertucci. Dark Wave
dal 4 al 21 maggio 2011
Cardi Black Box / Corso di Porta Nuova 38, Milano / Telefono: 02.45478189 / gallery@cardiblackbox.com
Orario: lunedì – sabato 10.00 – 19.00 / Ingresso libero

SUL WEB
Il sito di Lina Bertucci

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