Alienazione e solitudine ⋅ La condizione umana secondo Giacometti ⋅ Una retrospettiva a Tel Aviv

Veduta dell’allestimento della mostra Alberto Giacometti – Beginning, Again. Foto: Orith Youdovich

Una donna dall’età indefinibile sembra essere caduta in un sonno liberatorio e impenetrabile. I tratti del viso sono marcati ma allo stesso tempo delicati, le labbra carnose e i capelli si perdono morbidamente sulla nuca. Il territorio onirico nel quale è situata questa figura muliebre allude forse a un mondo “altro”, a una surrealtà parallela che però è senza dubbio “luogo” delle verità più profonde.
E ancora: un corpo femminile allungato (senza testa), fortemente stilizzato e armonico. Linee molto allungate e sinuose che evocano culture antiche ma forse ancora presenti nella sfera immaginaria moderna; un piede si pone davanti all’altro in un passo incerto ma caratterizzato da una sensualità sublime, dunque terribile. La sostanza bronzea di questo corpo si manifesta con una leggerezza sconcertante, l’essenzialità dei suoi tratti si configura come elemento significante che si autocomunica al di là di ogni possibile connotazione semantica.

Quelle che ho appena descritto sono due opere dello scultore/pittore svizzero- italiano Alberto Giacometti che apparentemente sembrano essere meno in linea con l’estetica più nota di questo importante artista, almeno quella sulla quale è stato costruito criticamente il suo mito culturale. Si tratta del disegno intitolato Sleeping Woman in Profile (Denise) del 1930 e della scultura denominata Walking Woman (I) del 1932, lavori entrambi esposti nella mostra Alberto Giacometti Beginning, Again, allestita fino al 7 ottobre 2023 presso l’Eyal Ofer Pavillon (ex Helena Rubistein) del Tel Aviv Museum of Art.

Alberto Giacometti. Sleeping Woman in Profile (Denise), 1930. Foto: Orith Youdovich

In verità, il nucleo autentico della poetica giacomettiana è assolutamente presente anche in questi due pezzi, i quali sono stati realizzati nella fase surrealista dell’autore e che fanno emergere con chiarezza la sua personale visione esistenziale.
E tale visione esistenziale è molto ben evidenziata dalla mostra stessa che, oltretutto, gode di un allestimento di rara eleganza, precisione e fruibilità, il tutto concepito dai curatori Hugo Daniel e Ronili Lustig-Steinmetz.
Le ampie e luminosissime sale dell’Eyal Ofer Pavillon sono state, infatti, trasformate in aree dai percorsi razionali, quasi geometrici, nei quali il visitatore può relazionarsi alle opere da punti di vista opposti. Tale impostazione ha conferito all’esposizione un senso di dinamismo fondamentale che permette una visione non semplificatoria delle opere.

La storia creativa di Giacometti è molto ben delineata in tutta la sua progressione cronologica, dal periodo cubista degli anni Venti (Figure – Known as Cubist, 1926) al già citato importate passaggio surrealista, ad esempio con il piccolo capolavoro scultoreo intitolato Disagrable object (1931), fino al complesso celeberrimo lavoro in ambito pittorico (meno frequentato dalle masse) e scultoreo che l’ha collocato tra i massimo artisti del XX secolo.
Tra i dipinti fruibili a Tel Aviv, particolarmente significativi sono Jacques Dupin del 1965 e Annette in the Studio del 1960. Opere raggelanti e inquietanti, mostrano delle figure umane sedute frontalmente. Sembrano provenire da un altrove imperscrutabile eppure sono il risultato di un lavoro che dovrebbe essere connesso potentemente al reale. Ma cosa è il reale per Giacometti? Non certo qualcosa di realmente vitale e fantasmagorico, nulla di eccitante e attraente.
Il mondo, per l’autore, propone figure fantasmatiche, avvolte in una tragica solitudine. Tutto è grigio, sbiadito, cupo anche se ben visibile. Le espressioni dei volti sono enigmatiche, quasi orrorifiche, e per certi versi (anche se è bene sempre marcare ogni possibile differenza) si avverte quasi una vicinanza a talune atmosfere caratteristiche anche di Francis Bacon. L’essere umano è presente ma si manifesta come una risonanza terribilmente angosciosa del vuoto che lo circonda. Non c’è alcuna speranza, né intento consolatorio, solo un senso del nulla che viene emanato non tanto da ciò che circonda i corpi (il niente) ma proprio dai corpi stessi.

La figura umana, dunque, nell’opera di Giacometti svolge un ruolo significante che contiene un discorso di tipo filosofico. La nostra condizione è caratterizzata da un isolamento che trasforma la nostra vita in una sorta di peregrinazione senza meta. Si tratta di una presunta deambulazione che non conduce da nessuna parte e che impietosamente ci inchioda alla nostra nullità.
Opere come Annette in the Studio (1965) o Bust of Annette, sempre del 1965 sembrano collocare l’attenzione di Giacometti sull’espressività del femminile. In questi casi l’immagine scultorea appare chiara, presente, tangibile, ci induce a pensare che il soggetto/oggetto esista nel mondo (e per lui era così nella vita quotidiana, visto che annette era sua moglie), in Four Figurines on a Stand (London Figurines, Model B) del 1950, però, il femminile si manifesta in esilissime, lontane, minuscole elaborazioni che creano un senso di spaesamento.
In The Glade del 1950, quattro figure indistinguibili, si presentano come esseri iper filiformi, segni appena visibili di una vita senza reale sostanza.
Infine, in Three Walking Men (Small Square) del 1948, l’artista svizzero indica nitidamente, forse già definitivamente, la sua concezione della condizione umana. Quelle che potrei definire tre “ombre materiche” alludono a un movimento apparentemente deciso ma che non ha alcuna direzione, alcun obiettivo da raggiungere. Non si va da nessuna parte, non c’è nulla da capire, non esiste nient’altro che l’essere umano nella sua evidente incompiutezza.

Three Walking Men (Small Square), 1948. Foto: Orith Youdovich

Dalla mostra allestita a Tel Aviv, dunque, vien fuori con una certa spietatezza concettuale la poetica di Giacometti: la sua continua, instancabile, convinta idea dell’alienazione umana. I suoi “esseri” sono disperatamente bloccati, incapaci di dare un valore al movimento, destinati a un romitaggio al quale non si può sfuggire.
Ciò che rimane al visitatore, una volta uscito dall’Eyal Ofer Pavillon del Tel Aviv Museum of Art è la sensazione (anzi, la conferma) che Giacometti sia stato uno degli artisti più lucidi e rigorosi del XX secolo, forse anche uno dei più sinceri e dei meno consolatori. Non ha cercato soluzioni esistenziali nella sua arte, non ha inseguito alcuna speranza, non ha lanciato messaggi confortanti, non ha indicato strade possibili da percorrere, non è mai caduto nel baratro della rappresentazione della bellezza, ha semplicemente narrato l’assurdità della vita, ovvero l’esilio al quale tutti noi siamo destinati ogni qual volta nasciamo.

© CultFrame 06/2023

CREDITI:

Mostra: Alberto Giacometti: Beginning, Again
Curatori: Hugo Daniel e Ronili Lustig-Steinmetz
Organizzazione: Tel Aviv Museum of Art e Foundation Giacometti
Luogo: Eyal Ofer Pavillon, Tel Aviv Museum of Art
Indirizzo: Tarsat Ave 6, Tel Aviv
Date: 6 maggio – 7 ottobre 2023
Curatori del catalogo: Hugo Daniel e Rinili Lustic-Steinmetz

 

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