La zuppa del demonio. Un film di Davide Ferrario

Davide FerrarioNel commento al film industriale Il pianeta acciaio (1962), recitato da Arnoldo Foà, Dino Buzzati usava l’immagine della “zuppa del demonio” per descrivere l’altoforno nel quale ribolliva il “signore del mondo d’oggi”, vale a dire l’acciaio, definito un demonio e un mostro ma anche un imperatore in grado di garantire ai propri sudditi un futuro di benessere materiale. Il titolo del nuovo lavoro di Davide Ferrario viene proprio da questo filmato, le cui immagini aprono il documentario e vengono in seguito riproposte allo spettatore con un estratto che mostra le ruspe abbattere centinaia di olivi secolari per avviare l’edificazione del tubificio di Taranto di proprietà dell’allora Italsider. Attraverso la messa in rilievo di questo caso particolare, il regista consente agli spettatori di riflettere sulla parabola odierna dell’Ilva e sulla gestione sconsiderata e criminale del suo impatto ambientale, che fa oggi rimpiangere gli olivi “antichissimi” e “sonnolenti” che avrebbero garantito a quella regione più salute (e turismo). Grazie a queste e a tutte le numerose altre immagini del suo film, Ferrario ci dimostra quindi in modo molto efficace quanto sia cambiata l’idea di progresso nel Novecento e quanto sia ancora oggi ambivalente e irrisolto il nostro rapporto con il mondo della produzione industriale.

La zuppa del demonio è infatti un’opera che non può essere ridotta a una semplice antologia di materiali conservati presso l’Archivio Nazionale del Cinema d’Impresa di Ivrea. Come aveva già fatto nella serie American Supermarket (1992) con filmati educativi e pubblicitari statunitensi degli anni Quaranta e Cinquanta, Ferrario è riuscito a realizzare attraverso le immagini degli archivi aziendali italiani un racconto articolato delle mutazioni sociali, paesaggistico-urbanistiche e culturali vissute dal nostro paese nel corso del Novecento, che è stato il secolo del cinema e delle comunicazioni di massa oltre che quello dell’industria. Dopo le immagini su evocate, la voce del regista accompagna un breve prologo girato nei capannoni dismessi delle ex OGR di Torino, oggi riconvertiti a contenitore di eventi culturali. In tale contesto, Ferrario fa rivivere la celebre ripresa del 1895 che ha immortalato per sempre l’uscita degli operai dalla fabbrica lionese dei fratelli Lumières (industriali prima che inventori del cinema) seguita da quella degli operai Fiat che escono dallo stabilimento di corso Dante realizzata da Luca Comerio nella Torino del 1911 dove si festeggiava il cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia con la grande Esposizione internazionale delle industrie e del lavoro.

La zuppa del demonio presenta poi una successione sostanzialmente cronologica di estratti di opere dedicate alle imprese industriali di ogni regione della penisola, firmate da registi quali Mario Camerini, Alessandro Blasetti, Ferdinando Cerchio, Ermanno Olmi, Dino e Nelo Risi, Giuseppe Ferrara: nomi, tra gli altri, che sommandosi a quelli di Michelangelo Antonioni, Bernardo Bertolucci o dei fratelli Taviani, autori di film industriali qui assenti ma già noti, testimoniano quanto il cinema sia stato sollecitato dalle imprese italiane come mezzo per raccontare e promuovere la cultura industriale. Inoltre, Ferrario alterna al commento originale di quei filmati d’epoca, scritto da autori quali Buzzati, Fortini, Pasolini, Sciascia, anche citazioni letterarie recitate da Walter Leonardi e Gianni Bissaca e tratte da fonti di varia natura selezionate da Giorgio Mastrorocco, già suo collaboratore per Piazza Garibaldi: si va dai manifesti futuristi, al taccuino operaio (La linea gotica) di Ottiero Ottieri, a brani di scrittori come Carlo Emilio Gadda, Goffredo Parise, Luciano Bianciardi, Primo Levi per concludere con alcune riflessioni di Giorgio Bocca datate 1980.

Il film può pertanto essere letto anche come una ricostruzione della storia delle relazioni tra gli intellettuali italiani, registi e scrittori, e la grande industria, dove non si ritrova la divisione manichea tra apocalittici e integrati, ma di cui il documentario riassume bene le varie fasi e le contraddizioni. Basti pensare, rivedendo alcune sequenze de L’uomo con la macchina da presa (1929) di Dziga Vertov e i cinegiornali delle visite di Mussolini alla AEM di Milano e alla Fiat di Torino, associati a citazioni da Majakovskij e Marinetti, a quanto ideologie politiche opposte abbiano puntato sull’industria come motore di sviluppo nazionale e di prestigio internazionale; una tensione ideologica e industriale sfociata poi nelle grandi guerre mondiali. In Italia, subito dopo la Liberazione, coloro che si erano schierati dalla parte dei comunisti e dei socialisti furono chiamati a svolgere soprattutto un ruolo di contrasto al mondo capitalista e alle politiche industriali dei “padroni”. Tuttavia, con gli anni Cinquanta, la crisi vissuta nel PCI a seguito dell’occupazione sovietica dell’Ungheria e l’avanzamento del cosiddetto “miracolo economico” modificarono in modo significativo l’atteggiamento degli intellettuali italiani nei confronti di quello che s’iniziava allora a chiamare “neocapitalismo”. L’impetuoso sviluppo industriale del paese appariva infatti come un fenomeno oramai irreversibile ed emancipatorio, che si poteva però cercare di temperare e orientare in senso democratico abbandonando gli schemi della rigida contrapposizione della lotta di classe. In quel periodo, molte grandi aziende iniziarono perciò ad assumere letterati e filosofi affidando loro incarichi importanti per lo sviluppo aziendale come la selezione del personale, l’ufficio stampa o la redazione di giornali e pubblicazioni che divulgassero nell’opinione pubblica un nuovo discorso consensuale verso il mondo industriale in quanto motore del progresso del paese. Indubbiamente, la figura di Adriano Olivetti ebbe un ruolo centrale nella creazione di rapporti di collaborazione tra uomini di cultura e imprese, e non casualmente alcuni filmati che presentano l’azienda di Ivrea come un modello di industria responsabile sono stati inseriti da Ferrario esattamente al centro del suo film.

Le immagini targate Edison, Ansaldo, Ilva, Fiat, Piaggio, Eni e così via dimostrano che non fu soltanto la Olivetti a tentare questa strada, una via che negli anni Settanta entrò però in crisi. Alcuni estratti da Le città invisibili (1972) di Italo Calvino e da Le mosche del capitale (1989) di Paolo Volponi segnano un nuovo atteggiamento critico degli scrittori rispetto alle sorti del mondo della produzione e del consumo industriale che aveva disatteso molte delle sue promesse in nome del profitto fine a se stesso e che si trovava a fare i conti con la crisi petrolifera e con i limiti fisici del nostro pianeta. Le considerazioni finali di Giorgio Bocca sanciscono il tramonto di un’utopia senz’altro ingenua ma che ancora oggi non è stato possibile sostituire con un modello di sviluppo altrettanto attraente. Le immagini dell’Archivio Nazionale del Cinema d’Impresa di Ivrea (oggi e nel 1957) con cui il film di chiude dopo i titoli di coda rimandano in maniera inequivocabile alla necessità presente di fare i conti con questa memoria.

© CultFrame – Punto di Svista 09/2014

TRAMA
Dai primi anni del Novecento alla crisi petrolifera del 1973-1974, l’Italia ha vissuto uno sviluppo industriale diseguale ma sostenuto dall’utopia di un progresso senza limiti, che a partire dagli anni Settanta iniziò ad andare sempre più in crisi. Questa storia è raccontata attraverso estratti di documentari e filmati promozionali realizzati dalle più grandi aziende italiane del secolo scorso.

CREDITI
Titolo: La zuppa del demonio / Regia: Davide Ferrario / Sceneggiatura: Davide Ferrario, Giorgio Mastrorocco da un’idea di Sergio Toffetti / Ricerche d’archivio: Elena Testa / Musiche originali: Fabio Barovero / Montaggio: Cristina Sardo / Produzione: Rossofuoco, Rai Cinema / Distribuzione: Microcinema / Paese: Italia / Anno: 2014 / Durata: 80 minuti.

SUL WEB
Filmografia di Davide Ferrario

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