Ricordo di Alain Resnais

Frame dal film “L’anno scorso a Marienbad” di Alain Resnais

Mentre una parte di mondo cinematografico si preparava ad autocelebrarsi al Kodak Theater di Los Angeles, all’età di 91 anni se n’è andato Alain Resnais. In competizione all’ultimo Festival di Berlino, il suo Aimer, boire et chanter si era conquistato il premio Alfred Bauer per un’opera in grado di aprire al cinema nuove prospettive. Pur non avendo potuto presenziare, il regista era riuscito a portare nella capitale tedesca una ventata di autentica freschezza artistica tramite uno stupendo gruppo di attori protagonisti, quasi tutti suoi collaboratori da qualche decennio. Con Resnais se ne va infatti un regista innamorato degli attori, dei suoi attori: Sabine Azéma, che era da tempo anche la sua compagna, André Dussollier, Pierre Arditi, Lambert Wilson, Michel Vuillermoz, Anne Consigny…. Sin dai suoi primi lungometraggi, Resnais era capace di regalare ai suoi interpreti ruoli memorabili: si pensi a Emmanuelle Riva ed Eiji Okada in Hiroshima mon amour (1959) o a Delphine Seyrig, Giorgio Albertazzi e Sacha Pitoëff ne L’anno scorso a Marienbad (1961).

Con questi due titoli, l’uno sceneggiato da Marguerite Duras e l’altro da Alain Robbe-Grillet, Alain Resnais era riuscito a tradurre sullo schermo la poetica sperimentale del nouveau roman e la sensibilità formale delle avanguardie cubiste (non a caso, i suoi primi lavori sono dedicati all’arte). Tanto lineari erano le geometrie spaziali che si dispiegavano sullo schermo quanto completamente antilineari erano le narrazioni che il regista bretone portava in scena, spesso intrecciando piani temporali diversi (nei due fondamentali titoli citati ma anche ne La guerra è finita o Muriel), raccontando storie parallele (Stavinski e Trotskij in Stavinski il grande truffatore con Jean-Paul Belmondo) o confondendo tra loro realtà, sogno e immaginazione (Providence o La vita è un romanzo). Se fosse possibile rintracciare un tratto caratteristico nel lavoro di un uomo che ha attraversato con il suo cinema più di cinquant’anni, sarebbe, forse, questo rapporto con lo scarto, con la non linearità e quindi con la capacità di pensare il tempo e la forma della rappresentazione. Resnais non esitava a far dialogare tra loro linguaggi diversi: la musica e le canzoni (Muriel, La vita è un romanzo, Voglio tornare a casa!, Mai sulla bocca, Parole parole parole), la grafica (Voglio tornare a casa!, Smoking/No smoking, Aimer, boire et chanter), la letteratura e il teatro (in particolare quello di Alan Ayckbourn, ma non solo).

Frame dal film “Vous n’avez encore rien vu” di Alain Resnais

Spesso capita, nel cinema di Resnais, che i morti e i viventi abbiano la stessa consistenza fantasmatica e che riescano ad amarsi attraverso le frontiere del tempo, come Orfeo ed Euridice. Così accade per esempio in Vous n’avez encore rien vu, vero e proprio film-testamento presentato nel 2012 al festival di Cannes. Si tratta di un film sepolcrale sull’amore e la morte, che dialoga a quasi trent’anni di distanza con L’amour à mort (1984). La morte, anche se in vesti talvolta molto diverse, è senza dubbio un’altra costante nel cinema di Resnais sin da Notte e nebbia (1956) che rappresenta la prima, fondamentale tappa del rapporto tra il cinema e la Shoah. Il documentario fu proiettato per la prima volta al Festival di Cannes nel 1956, in un contesto storico in cui la ricostruzione dei rapporti politici ed economici franco-tedeschi era prioritaria rispetto a ciò che oggi chiamiamo il dovere di memoria, come dimostrano le polemiche e gli imbarazzi che il film suscitò (Michel Bouquet, la cui voce accompagnava le immagini leggendo il testo di Jean Cayrol, non volle apparire nei titoli). Fu in tale contesto che Notte e nebbia contribuì profondamente a sensibilizzare il grande pubblico diventando anche un punto di riferimento per chiunque da allora abbia provato a confrontarsi cinematograficamente con lo sterminio compiuto dai nazisti (Claude Lanzmann ha sempre riconosciuto tale merito ad Alain Resnais).

Da allora, il cinema di Resnais non ha abbandonato la gravità, preferendo però sperimentare le possibilità di raccontare la storia e la vita quotidiana in termini agrodolci, coniugando il dolore e il colore, l’amore e la mestizia (Mai sulla bocca, Cuori, Gli amori folli), riuscendo perfino a rappresentare la depressione in toni pop (Parole parole parole). Rimane, nell’opera di questo regista, sempre qualcosa d’inclassificabile, un mistero che lascia lo spettatore nell’incertezza, con la sensazione di aver perso qualcosa, con il dubbio, magari, di essere stato ingannato, di non aver compreso la ragione del topo in Mon oncle d’Amérique, delle meduse che fluttuano sulla superficie di Parole parole parole, della talpa che fa capolino in Aimer, boire et chanter    , di questi animali che recitano insieme agli attori quasi che lo schermo fosse un acquario o un terrario e l’umanità non poi così diversa dal mondo animale. È da questa prospettiva che Alain Resnais sembrava guardare il mondo, rendendosi inafferrabile e forse condividendo quanto scrisse un altrettanto inafferrabile filosofo: « Non, je ne suis pas là où vous me guettez, mais ici d’où je vous regarde en riant… » [no, non sono dove mi cercate, ma qui da dove vi guardo ridendo].

© CultFrame 03/2014

 

LINK
CULTFRAME. Aimer, boire et chanter. Un film di Alain Resnais. 64 Berlinale di Silvia Nugara
Fimografia di Alain Resnais

 

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