Quando c’era Berlinguer. Un grande uomo per un piccolo film

Sul documentario firmato da Walter Veltroni dedicato alla figura di Enrico Berlinguer si è detto e scritto molto. Non v’è dubbio che il personaggio al centro di quest’operazione cinematografica sia di considerevole spessore e che la sua avventura terrena abbia rappresentato, per gli ideali che propagandava, una fase importantissima non solo per quel che riguarda l’evoluzione del concetto di comunismo ma anche per quel che concerne l’idea di democrazia; e infine per la storia del nostro Paese. Per i motivi sopra elencati, abbiamo assistito nelle ultime settimane a un fiorire continuo di contributi pseudo-critici (spesso di non critici) sul film che si fermavano quasi esclusivamente alla questione dei contenuti. Eppure, Quando c’era Berlinguer è in primo luogo un documentario cinematografico e come tale andrebbe analizzato e interpretato. Proviamoci!

Spicca innanzi tutto la scelta da parte di Veltroni di accostarsi alla fondamentale figura di Berlinguer impostando la narrazione attraverso l’uso della prima persona. Questa decisione ha, di fatto, reso il film oggettivamente limitato e tutto concentrato sulla visione personale dell’autore che ha finito per collocare Enrico Berlinguer in una dimensione della memoria non collettiva (anche se proprio questa era l’intenzione di Veltroni) ma semplicemente individuale. Ad aumentare la sensazione da parte dello spettatore di assistere a una sorta di diario visivo quasi privato, è stato anche, ovviamente, “l’inevitabile”, quanto inopportuno, uso della voce narrante dell’ex segretario del PD che con il passare dei minuti diventa sempre più ingombrante.

La scelta dei testimoni diretti dell’epoca berlingueriana è stata poi abilmente effettuata in modo tale che il documentario si appiattisse in modo ovvio sulla mera esaltazione politica di Enrico Berlinguer, evitando in tal modo di contestualizzare il suo percorso umano all’interno di un universo ben più complesso e ricco di sfumature. Tra le diverse testimonianze emerge (per assurdità) poi la presenza di Lorenzo Cherubini (Jovanotti), il quale, per motivi imperscrutabili è stato chiamato a parlare agli spettatori non solo di Berlinguer ma addirittura della parola comunismo. Cosa voglia significare poi la brevissima apparizione di Pier Paolo Pasolini (in un notissimo filmato ambientato sulle dune di Sabaudia) non è molto chiaro, visto che il grande scrittore-cineasta friulano fu espulso dal PCI nel lontano 1949, addirittura per indegnità morale.

Walter Veltroni tenta di costruire la sua prova registica cercando di collocare nel suo discorso filmico vari passaggi dal sapore lirico (presunto). Ecco il carcere in cui Berlinguer rimase alcuni mesi durante il fascismo, raffigurato grazie a lenti movimenti di macchina e a inquadrature vacue ed enigmatiche. Ecco ancora, nella fase iniziale una Piazza San Giovanni di Roma, vuota, spazzata da un vento “anomalo” che fa scivolare fogli di giornale quasi a rimarcare il pericolo della perdita della memoria (collettiva). Si tratta di tentativi, appunto; una chiara volontà da parte di Veltroni di fornire spessore filmico alla sua opera, tentativi che però risultano posticci e collocati nel contesto narrativo in modo artificiale. E poi, a proposito di banalità, come giudicare l’inutile prologo del film nel quale alcune persone mostrano di non sapere chi sia stato e cosa abbia rappresentato per il nostro paese Enrico Berlinguer? Si tratta forse dell’unico personaggio della politica, della cultura e dell’arte di cui le giovani generazioni italiane (e non solo) non sanno assolutamente nulla? Purtroppo, no.

Veltroni ha, dunque, elaborato un progetto rigidamente agiografico, parziale e ripetitivo sotto il profilo della narrazione filmica.

Il possibile (perfetto) finale con cui si sarebbe potuto concludere il documentario, basato sulle immagini del Presidente della Repubblica Sandro Pertini appoggiato sul feretro di Berlinguer, viene banalmente superato dall’immagine successiva: un Enrico Berlinguer infante che ci viene proposto come fuoriuscito da un fotogramma di un film dei primi del Novecento.

Per chiudere con una nota positiva (forse), voglio ricordare alcune immagini conclusive (queste, sì, veramente emozionanti) in cui si vedono accanto alla bara del segretario comunista Michelangelo Antonioni, Federico Fellini ed Ettore Scola (ma vi erano anche Gillo Pontecorvo, Carlo Lizzani, Francesco Rosi, Citto Maselli, Marcello Mastroianni, Monica Vitti e molti altri), a dimostrazione dell’attaccamento del cinema italiano e della cultura del nostro paese alla figura dello statista Enrico Berlinguer.

Ebbene ricordare, però, che questi brani utilizzati da Veltroni sono tratti dal documentario Addio a Enrico Berlinguer, realizzato nel 1984 da Bernardo Bertolucci (insieme a molti suoi colleghi). Il lavoro di Bertolucci (di trenta anni fa) dimostra che l’idea di Veltroni di realizzare un film su Berlinguer, pur basata sul concetto (ormai abusato) di memoria, non è poi così nuova e che Quando c’era Berlinguer non ha la forza espressiva dell’operazione effettuata dal regista di Novecento. Per rendersene conto, basta andare su YouTube, dove il film di Bertolucci è visibile integralmente. E ognuno, poi, faccia le sue personali considerazioni.

© CultFrame 03/2014

 

 

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