Hayao Miyazaki ⋅ Maestri del Cinema

Frame del film “Il Mio Vicino Totoro” di Hayao Miyazaki (1988)

Hayao Miyazaki. 5 gennaio 1941 (Tokio)

Il 27 Febbraio del 2009, in un sobborgo di Tokio, un incendio distrusse una casa di legno in mezzo al bosco. La notizia suscitò clamore tra i giapponesi (e non solo). A quella casa, dal tetto alto a spiovente, circondata da un giardino pieno di alberi, si era ispirato Hayao Miyazaki, regista e sceneggiatore di film d’animazione, quando nel 1988 creò Tonari No Totoro (conosciuto in Italia come Il mio vicino Totoro). Un anno dopo, la casa di Totoro è stata ristrutturata e, grazie anche all’intervento di Miyazaki, è stata circondata da 840 metri quadrati di parco.
Questa storia reale sembra richiamare gli elementi principali della poetica e dell’arte del regista giapponese. Si parla del rapporto tra l’uomo e la natura, di luoghi sacri (le piante e gli alberi), di reazione al disastro (naturale e non). Si parla dell’Enigmatico Giappone, per riprendere il titolo del saggio del professore di antropologia Alan Macfarlane.

In Starting Point 1979-1996, un libro che raccoglie saggi e interviste, ancora inedito in Italia, Miyazaki affronta i primi anni della sua carriera e traccia un interessante profilo dell’autore di anime. Il processo di creazione, afferma, comincia “all’interno di quel mondo che l’autore ha già dentro di sé: i paesaggi raccolti nella sua memoria, i pensieri e i sentimenti che vuole esprimere”. Lo starting point può essere un’emozione, un dettaglio, “una ragazza che inclina la testa di lato”: è, in sostanza, un’immagine, capace di sprigionare il mondo fantastico del creatore di animazione. Lentamente, questo mondo prende forma, si delinea lo scenario. I personaggi cominciano a muoversi. Partiamo proprio da questo aspetto, rilevante e di sicura efficacia nelle opere del regista di Tokio: la qualità del movimento. Nel 1979 Miyazaki (dopo aver lavorato per la tv a Mirai Shonen ConanConan, il ragazzo del futuro, 1975) dirige Rupan Sansei: Kariosutoro no shiro (Lupin III e il castello di Cagliostro). Basta vedere le prime immagini del film per capire di cosa stiamo parlando. Lupin e Jigen hanno appena rapinato il Casinò di Stato e sono inseguiti da un manipolo di uomini. La loro corsa è punteggiata da una serie di salti a ostacoli a ritmo di musica. Poco dopo, sono alla guida di una Fiat 500, letteralmente immersi nei soldi che hanno rubato. Essendo falsi, però, Lupin decide di lanciarli verso le altre macchine in corsa. Si crea così una scia volante di banconote che fluttua, galleggia nell’aria e poi ricade sull’asfalto. Musica e titoli di testa. In pochi minuti abbiamo un movimento dinamico, divertente e ispirato.

Frame del film “Lupin III – Il castello di Cagliostro” di Hayao Miyazaki (2004)

L’animazione deve contenere una certa dose di realismo, per questo Miyazaki disdegna quelle macchine e quei robot che l’uomo non può né gestire, né riparare. Questo spiega lo studio accurato e la passione con la quale rappresenta il mondo meccanico: dalle macchine (la Fiat 500 di Lupin III, la Citroen 2 CV di Ponyo sulla scogliera) agli aerei (gli idrovolanti della seconda guerra mondiale in Porco Rosso), dalle barche ai marchingegni più strampalati (l’enorme e sofisticata struttura del Castello errante di Howl). Nel breve saggio From Idea to film, contenuto in Starting Point, Miyazaki dedica più di un capitolo alla rappresentazione della corsa. Il movimento di un personaggio che corre deve essere realistico in quanto illusorio: non può attenersi alla realtà completamente né essere improbabile: è necessario che dia l’idea del movimento stesso. Per far questo, l’atto della corsa deve esprimere qualcosa.
Il movimento, meccanico e umano, arricchisce i mondi creati da Miyazaki, e spesso libera tutta la sua potenza nei due elementi naturali principali (e ricorrenti) dell’acqua e dell’aria. La dinamicità e l’espressività permeano non solo i personaggi, ma anche gli ambienti, grazie a fondali estremamente curati, in cui l’attenzione per un intera città è la stessa dedicata a un singolo fiore in mezzo al prato. Tutto concorre a definire il disegno artistico del regista e una rappresentazione animata della natura (i cambi di luce, le foglie mosse dal vento, i moti delle onde, i corpi fumosi delle nuvole). La stessa musica dei film di Miyazaki, sempre curata da Joe Hisaishi, si inserisce perfettamente nell’equilibrio degli aspetti visivi e ritmici. Si sviluppa così quell’armonia delle parti che ritroviamo nell’arte del Giappone. Per Macfarlane, l’arte giapponese è caratterizzata da “colori sgargianti, figure grottesche tendenti all’esagerazione, bellezza scenografica e un carattere giocoso ed esuberante. […] Sa essere diretta, osserva la vita di ogni giorno e trasforma il mondo in un immenso cartone animato”. In Introduzione alla cultura giapponese, lo studioso Hisayasu Nakagawa descrive la specificità dell’arte giapponese come “armoniosa giustapposizione di elementi diversi”. Per i film di Miyazaki si potrebbe utilizzare la definizione di cartone animato artistico, ma la fotografia migliore che se ne può dare (in seguito vedremo come) può essere contenuta nella sola parola anime-animazione.

Nel 1985, Hayao Miyazaki fonda lo Studio Ghibli con Isao Takahata. Uno dei loro primi lavori è Tonari No Totoro (Il mio vicino Totoro, 1988). Il logo dello studio diventa uno spirito kami grosso come un panda, che vive in un albero di canfora, vicino a una piccola casa di legno conosciuta nella zona come la casa degli spiriti. Satsuki e Mei sono le due bambine che, con il padre, si trasferiscono in campagna, proprio nell’abitazione di legno. La madre è ricoverata all’ospedale. Mei, giocando nel giardino della casa, entra in un tunnel simile alla tana di Alice nel paese delle Meraviglie di Lewis Carroll, e finisce in un altro mondo. Qui conosce lo spirito a cui dà il nome di Totoro. Solo lei e la sorella possono vederlo, e grazie al suo aiuto, e a un mezzo di locomozione noto come il Gattobus, Satsuki ritroverà Mei, che si era persa nel bosco per andare a trovare la madre in ospedale. La casa e il giardino al centro del film diventano regno di segreti e creature fantastiche. L’albero di canfora, immenso e delicato al contempo, è la dimora dello spirito kami.
Ma qual è il momento preciso in cui il mondo degli spiriti entra in contatto con quello degli umani? C’è una sequenza nella quale Satsuki e Mei aspettano il padre alla fermata dell’autobus, sotto la pioggia. Il tempo passa e il padre non arriva. Succede qualcosa. La pioggia diminuisce. La notte sembra cambiare impercettibilmente. Satsuki abbassa lo sguardo e nota, con stupore, la zampa di Totoro. Lo spirito è entrato nel mondo delle due bambine. Dopo qualche attimo arriverà il Gattobus, saltellando e correndo sull’asfalto bagnato. Se il tunnel poteva essere una citazione di Carroll, adesso Miyazaki ci mostra qualcosa di autentico, forse il cuore della sua stessa creazione. C’è un confine tra il mondo umano e quello degli spiriti, ma questo confine non è netto, alberga in un lieve cambio di vento, in una percezione silenziosa. Lo vedremo meglio nella Città Incantata. Questa percezione ha a che fare con il rapporto uomo/ natura/ spirito che caratterizza la cultura giapponese e che differenzia il lavoro di Miyazaki da altri lavori d’animazione sul modello occidentale. L’enigma di questo rapporto risiede nella compossibilità delle dimensioni: sono separate, eppure così vicine. “Il mondo è costruito dall’uomo e al tempo stesso è fuori dal suo controllo”: in questa frase, dedicata al rapporto tra uomo e natura in Giappone, abita quel sottile passaggio tra la notte piovosa e quella silenziosa dell’ingresso di Totoro.

Frame del film “La città incantata” di Hayao Miyazaki (2001)

Nel 2002 Miyazaki vince il Premio Oscar per Sen to Chihiro no Kamikakushi (La città incantata in Italia, in inglese tradotto con il bellissimo Spirited Away). Un lavoro significativo nel percorso dello studio Ghibli, in cui ricorrono i temi più importanti trattati da Miyazaki: dall’ecologia alla critica al capitalismo, dal rapporto uomo/ natura/ spirito al processo di crescita dei bambini.
Chihiro è una bambina sdraiata sul sedile posteriore della macchina dei genitori. È triste perché ha dovuto lasciare la scuola per cambiare città. Regge in mano un fiore donatole dai compagni. Il padre, alla guida di una piccola utilitaria, sbaglia strada, e finisce su uno sterrato in mezzo al bosco. Con la convinzione di poter uscirne (una delle tante gag che nei film di Miyazaki dipingono gli uomini come testardi e imbranati, al contrario delle donne), spinge la macchina attraverso il bosco, fino ad arrivare all’imbocco di un tunnel. Un arco di pietra inquadra un buio insondabile. Chihiro ne rimane impressionata e, al contrario dei genitori, non vuole entrare nel tunnel. Alla fine viene convinta. Sarà per lei il passaggio in un’altra dimensione: intendiamoci, una dimensione simile alla nostra, ma anche qui leggermente diversa. Chihiro e genitori si ritrovano in mezzo a una strada di negozi abbandonati. Un ristorante sembra aperto, sul bancone c’è una fila di vassoi dalle portate invitanti. I genitori, ignorando le lamentele della figlia, si siedono e attaccano a mangiare con foga inaudita. Dopo pochi attimi si tramutano in maiali. Chihiro fugge, disorientata e terrorizzata. Ai suoi occhi appare una città. Comincia la sua avventura in un mondo di streghe e apprendisti, uomini-rana e donne tuttofare, in cui dovrà lavorare duro per essere accettata, in cui incontrerà l’amore e il senso di responsabilità necessario per salvare i genitori. Nel mondo/altro le verrà cambiato il nome, si chiamerà Sen. Incontrerà lo Spirito del Cattivo Odore e gli farà un bagno, sfiderà il Senza Volto, con cui alla fine stringerà una silenziosa amicizia.

Le invenzioni visive di Miyazaki sono innumerevoli, dai longilinei spiriti neri al tentacolare uomo delle caldaie, dagli spiritelli della fuliggine allo spirito del ravanello. Ogni elemento (sgargiante, grottesco, solenne) trova il suo posto nell’equilibrio interno della città. Il movimento di questi personaggi è eterogeneo: lento (impressionante lo strisciare dello spirito ricoperto di melma), isterico, virtuosistico (il volo di Haku, il ragazzo/drago). Quando parliamo di questi personaggi, ne richiamiamo il movimento animato: ne sorridiamo e ne partecipiamo, poiché quel movimento è vivo ed espressivo.
Nella Città incantata troviamo maledizioni, spiriti che mangiano le persone, eppure, paradossalmente, non ci sono buoni e cattivi ben identificabili. Non c’è il male personificato o reificato. C’è un evento iniziale che crea un disordine, che minaccia l’equilibrio tra i mondi. Haku dice a Chihiro che un essere umano non dovrebbe entrare nella Città. L’incidente crea il caos, le disavventure e, infine, il ritorno dell’equilibrio e il lieto fine.

Se ci pensiamo bene, tutto ciò rimanda alla concezione dei disastri naturali in Giappone, arcipelago devastato dai terremoti e dallo tsunami: la natura è furiosa e generosa al contempo, scrive Miyazaki, eppure quando accade una tragedia non c’è un colpevole. È successo, è il caso e l’uomo si deve industriare per ricostruire e ritornare a una situazione di equilibrio. Non c’è un colpevole, come non c’è senso di colpa nei confronti di un Dio trascendente. Nello scintoismo ci sono i kami, gli spiriti, che “sono alti, veloci, buoni, ricchi, vivi, ma non infiniti, onnipotenti e onniscienti”. Di contro, nella Città incantata, Miyazaki sembra individuare un colpevole: i genitori di Chihiro si abbuffano di cibo e si tramutano in maiali; la gente della Città, vedendo che lo Spirito Senza Volto distribuisce oro, si tuffa i suoi piedi, servile e ipocrita, per poi finire mangiata; Haku, il ragazzo di cui Chihiro siinnamora, in passato era lo spirito di un fiume, minacciato dalla progressiva urbanizzazione dello spazio. Il messaggio di Miyazaki è chiaro: l’origine del marcio è la rottura dell’equilibrio tra uomo e natura (già individuata nella favola post-atomica Nausikaa della Valle del Vento), la dipendenza dal denaro e un certo occidentalismo che hanno minato la tradizione culturale nipponica.

Ecco cosa scrive lo stesso regista nel project plan di Tonari no Totoro: “un po’ di tempo fa, quando gli veniva chiesto ‘cos’è che il Giappone può mostrare con orgoglio al mondo?’, i bambini e gli adolescenti rispondevano ‘la bellezza nella natura e nelle quattro stagioni’. Nessuno, adesso, dice più una cosa del genere. Nonostante il fatto che noi viviamo in Giappone e siamo senza dubbio giapponesi, continuiamo a creare film d’animazione che si rifiutano di rappresentare il Giappone. Come mai la nostra nazione si è tramutata in un posto così misero e privo di sogni?”.

Frame del film “Ponyo sulla scogliera” di Hayao Miyazaki. (2008)

Dopo l’adattamento del romanzo di Diana Wynne Jones, Howl’s Moving Castle (Il Castello Errante di Howl, 2004) e il Premio alla Carriera alla Mostra dell’arte cinematografica di Venezia, Miyazaki e lo Studio Ghibli creano e producono Gake no ue no Ponyo (Ponyo sulla scogliera, 2008), un lavoro di perfetto equilibrio registico, una fiaba semplice e di trascinante poesia visiva.
Ponyo è un pesce che non ne può più di rimanere imprigionato in una grotta sottomarina, e decide di andare in perlustrazione. Finisce così in una rete da pesca, poi dentro un barattolo di vetro, infine su una scogliera, dove viene raccolta da un bambino, Sosuke, che decide di prenderla per accudirla e che le dà un nome: Ponyo, appunto. La porta con sé, dentro a un secchiello verde, nella sua casa sul promontorio dove vive con la madre, Risa, e da dove, la notte, comunica con il padre navigatore attraverso l’alfabeto morse con le luci. Sosuke e Ponyo diventano amici, e il loro legame è così intenso che Ponyo decide di voler diventare un essere umano. Azione e reazione. Il mondo sottomarino è in fibrillazione per la notizia. Il padre di Ponyo, Fujimoto, che aspira a un ritorno all’Età Marina in cui gli esseri umani non potranno più turbare l’ordine naturale, vuole impedire a tutti i costi la trasformazione, ma interverrà la madre di Ponyo, una divinità marina con le sembianze di una bellissima donna, i capelli rossi che fluttuano costantemente come onde: la madre acconsentirà alla trasformazione di Ponyo.
Analizzando una sola sequenza di Ponyo sulla scogliera, si può capire l’importanza di quest’opera per la carriera dello studio Ghibli, per l’animazione e per l’arte.
Sul litorale si sta scatenando la tempesta. Piove forte, e il mare si sta gonfiando a dismisura. C’è il pericolo dello tsunami. Risa e Sosuke sono nella piccola utilitaria, lanciata a forte velocità sul versante della collina. Stanno correndo a casa, per ripararsi. Tutto intorno a loro è minaccia e pericolo. Il pensiero corre al padre, in mezzo al mare. Le nuvole assumono un colore scuro e plumbeo. Proprio in questo punto del film, ecco che sulla cresta dell’onda compare una bambina. Sta correndo. È vestita di rosso. È Ponyo che, grazie alle sue doti magiche e al suo forte desiderio, ha preso sembianze umane. Ponyo corre sulle onde, parallelamente alla corsa in macchina di Sosuke e la madre. Ha un sorriso pieno di allegria sulle labbra, eppure intorno a lei si sta sviluppando un disastro naturale. Cosa sta succedendo, quindi? Perché questi elementi, la furia dello tsunami e la gioia della corsa ci vengono mostrati insieme? In pochi attimi, attraverso un’animazione, lo abbiamo sottolineato, dinamica e visivamente ricca, lo spettatore viene sconvolto da una rappresentazione di emozioni diverse eppure contemporanee. Forse, un film d’animazione della Disney o comunque di tradizione occidentale avrebbe separato i due piani, mostrando prima il pericolo, e poi rivelando il barlume di speranza nella corsa di Ponyo. Miyazaki e lo Studio Ghibli, invece, dipingono una sequenza che stilla gocce di vita, in cui le emozioni (paura, curiosità, allegria) convivono, semplici e spontanee. Per un attimo sembra di percepire lo starting point del regista giapponese. La corsa, le onde, lo sguardo meravigliato del bambino: un realismo autentico quanto illusorio (i piedi che si posano sull’acqua), un’animazione totale, che si annida e scaturisce da sentimenti interni all’autore. Ci troviamo, con ogni probabilità, di fronte al principio e al segreto dell’animazione secondo Miyazaki: “siamo dinanzi a qualcosa di meraviglioso, vagamente conosciuto e nel contempo strano”.

 

BIOGRAFIA

Hayao Miyazaki nasce a Tokio, nel 1941. I suoi primi lavori di animazione sono per lo studio Toei Douga e lo studio A-Pro, in collaborazione con Isao Takahata, insieme al quale dirige alcuni episodi di Lupin III. I due, successivamente, entrano a far parte del World Matserpiece Theater, e lavorano su adattamenti dai grandi libri per l’infanzia, tra cui Heidi, Anna dai capelli rossi e Marco- Dagli Appennini alle Ande. Nel 1978 Miyazaki produce e dirige Conan il ragazzo del futuro per la tv, mentre è del 1979 il suo primo lungometraggio, Lupin III Il Castello di Cagliostro. Miyazaki tornerà a dirigere un lavoro cinematografico nel 1984, l’anno in cui esce, per lo studio Topcraft di Takahata, Nausikaa della Valle del Vento, film tratto dalla serie manga da lui stesso scritta. Nel 1985, a seguito del successo del film, Miyazaki e Takahata fondano lo Studio Ghibli. È l’occasione, per Miyazaki, di lavorare a progetti interamente suoi. Il primo film dello studio è Laputa- il castello nel cielo (1986), a cui segue Il Mio Vicino Totoro (1988). Totoro diventa il logo dello studio Ghilbi. Miyazaki & Co. si dividono tra lungometraggi, cortometraggi e anche video musicali. Il loro ultimo lavoro, Arrietty, vede la partecipazione di Miyazaki in veste di sceneggiatore.

© CultFrame 11/2011

FILMOGRAFIA (regie)
1979 – Lupin III – Il castello di Cagliostro
1984 – Nausikaa della Valle del Vento
1986 – Laputa – Il Castello nel Cielo
1988 – Il Mio Vicino Totoro
1989 – Kiki consegne a domicilio
1992 – Porco Rosso
1997 – Principessa Mononoke
2001 – La città incantata
2004 – Il castello errante di Howl
2008 – Ponyo sulla scogliera

SUL WEB
Studio Ghibli
Online Ghibli 

RIFERIMENTI BIBILIOGRAFICI
MIYAZAKI, Hayao, Starting Point 1979-1996, U.S.A, VIZ Media LLC, 2009.
MACFARLANE, Alan, Enigmatico Giappone, Italia, EDT, 2010.
NAKAGAWA, Hisayasu, Introduzione alla cultura giapponese, Italia, Bruno Mondadori, 2006.

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