La zona d’interesse⋅”I volenterosi carnefici di Hitler” secondo il genio di Jonathan Glazer

Ci voleva il genio di Jonathan Glazer per spazzare via, con una sola significativa opera, l’ormai prevedibile teoria cinematografica della rappresentazione della Shoah costituita da film di ricostruzione pseudo-storicistica non in grado di ricostruire alcunché. Ci voleva Jonathan Glazer per ridimensionare, finalmente e una volta per tutte, un lungometraggio modesto e superficiale come La vita è bella, che nulla ha apportato alla complessa relazione tra cinema e sterminio, tra cinema e genocidio del popolo ebraico.

Quasi tutto il cinema della Shoah, a parte rari casi come il capolavoro di nove ore di Claude Lanzmann intitolato proprio Shoah, si è impelagato nel corso degli anni in uno sterile tentativo di raffigurazione dell’indicibile e del non rappresentabile. Rievocare l’orrore nazista tramite banali, nonché realistiche, ricostruzioni è infatti operazione che per sua natura è destinata a fallire. Inquadrare morbosamente la violenza che nei campi di sterminio era destinata a milioni di persone significa, infatti, procedere all’interno di un discorso filmico pericolosamente vicino alla spettacolarizzazione. E la Shoah non può e non deve divenire, mai e poi mai, uno spettacolo (meno che mai cinematografico).
L’ha chiarito in modo inequivocabile il già citato Lanzmann, il quale contestava ogni possibile riedificazione visiva dei campi di sterminio affermando che in questo modo non si sarebbe fatto altro se non rendere sopportabile il gelo spietato della morte, l’algida e demoniaca intenzione dell’annientamento nazista, il buco nero del genocidio praticato da esseri umani (qualsiasi) su altri esseri umani.

Jonathan Glazer, pur realizzando un film di finzione (a parte brevissime sequenze), con La zona di interesse ha saputo cogliere pienamente, e con notevole intelligenza, la suprema lezione di Lanzmann, una lezione filosofica, dunque sia morale che estetica, prima che prettamente cinematografica.
Al centro dell’operazione artistica di Glazer, imperniata su un romanzo di Martin Amis, non c’è infatti la visione delle immonde azioni naziste, non c’è l’ovvia narrazione della vita dei deportati, non ci sono scene di violenza. Tutto ciò è sapientemente posto dal regista britannico fuori scena, o meglio fuori inquadratura.
Le giornate dell’ignobile e squallidissima famigliola ariana del comandante di Auschwitz Rudolf Höß sono caratterizzate da comportamenti quotidiani assolutamente ordinari. La biondissima, inquietante, moglie di Höß è una perfetta madre  e moglie nazista: alta, in salute, energica, propositiva. Accudisce i figli in attesa che diventino i nuovi nazisti e cura amorevolmente il consorte, il quale passa le ore a pianificare il vomitevole sistema dei forni crematori.
La villetta degli Höß è collocata proprio a ridosso del muro di cinta di Auschwitz ed è una sorta di piccolo paradiso in terra. Un giardino con piscina, piante e fiori dappertutto, un orto e una serra. Una servitù, composta da schiave, lavora instancabilmente tutto il giorno per il benessere del lurido nucleo familiare nazionalsocialista.

Ebbene, Jonathan Glazer, giustamente, non entra mai con la macchina da presa dentro il campo di sterminio; tutto il racconto si svolge in casa Höß, o al massimo nelle campagne limitrofe ad Auschwitz.
I piccoli ributtanti nazisti giocano nel giardino della villetta mentre molto in lontananza si odono urla disperate, agghiaccianti minacce in tedesco, e colpi d’arma da fuoco. La sera, poi, quando cala il buio le fiamme e il fumo che fuoriescono dai forni crematori rendono il cielo una specie di sconvolgente scenografia naturale del genocidio.

Glazer, dunque, non rappresenta la Shoah, la evoca (come già detto) attraverso il fuori campo e grazie ad elementi sonori sconcertanti che in talune occasioni prendono possesso dell’inquadratura e che determinano nello spettatore una sensazione di atroce straniamento.
La dimensione della laida esistenza degli Höß è resa attraverso un impianto registico di altissimo rigore espressivo. Gli attori sono stati spesso lasciati liberi di muoversi nello spazio della casa (anche nelle parti aperte) grazie a un complesso sistema di videocamere in grado di seguirli ovunque andassero senza la presenza dell’autore sul set. Il lavoro fondamentale di Glazer (oltre a quello preparatorio), quindi, è stato quello della selezione dell’enorme materiale visuale prodotto e di montaggio definitivo del film realizzato insieme a Paul Watts.

Ne è venuto fuori un testo visivo raggelante, perturbante, durissimo da sostenere.  Più un’opera d’arte che un lungometraggio cinematografico classico.
Il gelo della morte si percepisce in ogni segmento espressivo, la lercia ripugnanza della dimensione esistenziale nazista si manifesta agli occhi del fruitore in tutta la sua assurda prevedibilità. 

In questo caso però, più che un’impostazione arendtiana, legata al concetto spesso abusato di banalità del male, emerge un’interpretazione del nazismo in chiave quasi sociale e di psicologia collettiva. I “volenterosi carnefici di Hitler”, come li ha definiti lo scienziato della politica Daniel Goldhagen in un suo importante libro, sono semplicemente visti all’opera, nella loro vergognosa e meccanica indifferenza. Sono degli squallidi approfittatori, dei criminali per bene, dei feroci persecutori di buona famiglia e di buone maniere. Agiscono su un piano di realtà terrificante, basato su una disumanità mostruosa nascosta dietro ai bei vestiti,  a modi educati, spensieratezza e arrivismo. Ma l’aspetto centrale, correttamente evidenziato da Glazer, è che sono perfettamente consapevoli di ciò che stanno facendo e a cui stanno assistendo. Non obbediscono a ordini superiori. Vogliono, in sostanza, generare orrore. Godono nel vederlo concretizzarsi davanti ai loro occhi.

Lo stile del regista si adegua a questa impostazione socio-psicologica. Glazer lavora attraverso una potente sottrazione, scarnifica l’inquadratura, rende rabbrividente la forma dell’immagine, trasforma ogni visione in un precipizio di senso in cui l’orrore è comunicato da un distacco estetico urticante.
L’irruzione improvvisa nel contesto filmico degli addetti alle pulizie di Auschwitz dei giorni nostri, tramite sequenze puramente documentaristiche, introduce uno spaesamento vertiginoso mentre il Rudolf Höß degli anni quaranta, in divisa da SS e i capelli con la brillantina, vomita schifosamente negli ambienti vuoti e mortuari del proprio ufficio. Il buio lo attornia, il silenzio lo squarcia, l’abisso lo attende. Il suo sguardo ottuso fissa il nulla.

© CultFrame 02/2024

TRAMA

Rudolf Höß è il comandante del compaio di sterminio di Aschwitz. Con lui vivono la moglie e alcuni figli. La famigliola risiede in una placida villetta collocata nelle vicinanze del muro di cinta del campo. Mentre i bambini giocano in giardino si sentono urla disperate, spari e il cielo si tinge di rosso. I forni crematori sono all’opera.

CREDITI

Titolo: La zona d’interesse / Titolo originale: The Zone of Interest / Regia: Jonathan Glazer / Sceneggiatura: Jonathan Glazer (dal romanzo di Martin Amis) / Fotografia: Łukasz Żal / Montaggio: Paul Watts / Scenografia: Chris Oddy / Produzione: Extreme Emotions, A24, Film4 Productions, House Productions / Interpreti: Sandra Hüller, Christian Friedel, Medusa Knopf, Daniel Holzberg, Sascha Maaz, Max Beck / Origine: Regno Unito, Polonia / Distributore italiano: I Wonder Pictures / Anno: 2023 / durata: 105 min.

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