Marc Augé: l’immaginario della città, dalla storia alla globalizzazione

Dal 19 al 21 settembre si è svolto fra Modena, Carpi e Sassuolo il Festival della Filosofia sulla Fantasia, tema a cui sono state dedicate lezioni magistrali, spettacoli, mostre, menù gastronomici, laboratori e concerti. Un importante contributo è stato fornito da Marc Augé (Poitiers, 1935), etnologo e antropologo francese che dalla fine degli anni Sessanta sta svolgendo significative ricerche sugli aspetti più rilevanti della società contemporanea metropolitana: l’incremento della solitudine, i nuovi percorsi relazionali fra io e altro, i processi legati alla memoria e all’oblio. Ma, soprattutto, è Augé ad aver coniato il fortunato neologismo “non luoghi” con cui ha definito quegli spazi sociali contemporanei anonimi e stereotipati (come gli aeroporti, le autostrade, i grandi magazzini) frequentati da persone che non condividono legami di natura identitaria o religiosa o storica, ma che semplicemente vi transitano. Cosa è accaduto nelle città da quando all’inizio degli anni Novanta l’antropologo francese individuò per la prima volta i “non luoghi”? Innanzitutto, il processo di globalizzazione – ha spiegato Augé, ospite a Sassuolo – è continuato, si è approfondito, incentivando lo sviluppo esponenziale dei rapporti con l’esterno; in conseguenza di ciò, le città sono state oggetto di un decentramento sempre maggiore con un’estensione senza precedenti dei cosiddetti “non luoghi empirici”, vale a dire degli spazi di circolazione, di consumo e di comunicazione. Tutto ciò ha prodotto alcune conseguenze antropologiche.

Nella costruzione dell’identità sia individuale sia collettiva il rapporto e la negoziazione con gli altri hanno assunto un ruolo sempre più predominante. Tale rapporto, però, è diventato indipendente dai luoghi fisici in cui viviamo, perché si è ampliato all’intero campo planetario grazie all’uso di strumenti come la televisione, il computer e il cellulare. Quindi, anche la città nel suo complesso si è aperta a nuovi orizzonti, costringendo l’antropologia a tornare su nozioni che sembravano acquisite una volta per tutte.

La nozione di globalizzazione, per esempio, si è rivelata non soltanto come un processo di omogeneizzazione, ma anche di esclusione; infatti, anziché una democrazia generalizzata così come aveva immaginato lo storico Francis Fukuyama, si è andata costituendo un’aristocrazia globale, cioè una concentrazione di potere e di ricchezza in pochi poli contro una massa di consumatori passivi e di persone escluse dall’accesso al consumo. E l’incontro fra globale e locale, talvolta, ha prodotto una miscela fra i due elementi dando vita al “glocal” ma, altre volte, ha creato un’opposizione netta. Anche la nozione di urbanizzazione ha assunto connotati inediti: da una parte, è emerso un “mondo-città” grazie alla rete sempre più fitta costituita fra le città; dall’altra, sono sorte “città-mondo”, città nel cui tessuto urbano si sono riprodotte le frontiere che tradizionalmente dividevano il mondo, tanto che oggi in una medesima città convivono zone di sottosviluppo e quartieri d’affari. Infine, la nozione stessa di frontiera è radicalmente mutata: in passato era vissuta come qualcosa di inquietante ma, al tempo stesso, di affascinante; oggi, al contrario, viene considerata come qualcosa da abbattere, da abolire. In verità, la frontiera non dovrebbe essere vista come una barriera insuperabile quanto piuttosto come un confine che può e deve essere attraversato e, ancora, come un limite da rispettare perché definisce la distanza minima necessaria per essere veramente liberi. Ma simili dinamiche tanto complesse quali conseguenze hanno determinato sul mondo dell’arte?

Tutto ciò ha dato vita a un’estetica della distanza, un’estetica capace di restituirci un’immagine nuova del mondo. Infatti, la costruzione di grattacieli e la possibilità di scattare delle foto satellitari, per esempio, ci hanno permesso di osservare il mondo da lontano; inoltre, l’apertura del pianeta nei confronti di tutti noi ha fatto sì che architettura, arte, design abbiano potuto dar vita a un eclettismo ispirato che ha una vocazione umanista e che si oppone tanto ai monopoli culturali quanto all’etnocentrismo.

L’estetica della distanza, però, nasconde anche delle insidie: per gli artisti di oggi è difficile praticare un vero e proprio eclettismo, perché l’altrove – antropologicamente inteso – non esiste più; inoltre, la grande flessibilità del sistema globale crea condizioni di ricettività nei confronti del recupero di tutte le dichiarazioni d’indipendenza e le ricerche di originalità ma, nel momento stesso in cui vengono formulate, sono messe in scena, rielaborate dai mass-media e dalle rappresentanze politiche. Ciò significa che gli artisti, il cui compito è secondo Augé quello di esprimere la società e il mondo, paradossalmente possono far fatica a prendere distanza, rischiando di diventare un’espressione passiva della realtà, mentre dovrebbero mantenere intatte sia la loro capacità espressiva sia quella riflessiva. Gli artisti insomma sono persone condannate, perché devono sforzarsi di resistere all’apparenza sempre più evidente della realtà e devono provare a ritrovare il carattere enigmatico delle cose. Ma la conclusione di Augé è tutt’altro che pessimista. Per l’antropologo è importante il contributo dato dalle architetture, dalle rovine del passato in modo particolare, perché esse ci mostrano un tempo in movimento, testimoniano che ci siamo stati e ci dà la speranza che ci saremo ancora in futuro. Forse la storia non è finita (come sosteneva Fukuyama) e probabilmente riusciremo a organizzare meglio la vita anche – chissà – grazie all’insediamento su altri pianeti e grazie a una migliore comprensione delle uguaglianze e delle disuguaglianze. Dovremo continuare a coltivare le utopie di cui le architetture contemporanee possono essere un’espressione, cosicché «le luci delle nostre città riescano ancora a brillare».

© CultFrame 09/2008

SUL WEB
La Stampa. “E’ il cinema il vero luogo”. Intervista a Marc Augé
ALEF. Intervista a Marc Augé
Ibs. I libri di March Augé

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