
Era una giornata umida e nuvolosa. L’aria era grigia, il freddo colpiva i nostri visi con sferzante insistenza. Camminammo alcuni minuti dal confine italiano dentro il territorio sloveno. Pochi stabili ai lati della strada, rare macchine che sfrecciavano chissà in quale direzione. All’improvviso, dopo aver superato un cavalcavia, ecco uno svincolo stradale. Al centro, un’area il cui perimetro era delimitato da un muro di cinta. Ci avvicinammo a un cancello semidistrutto ed entrammo. Si parò al nostro sguardo un terreno reso fangoso dalle abbondanti piogge dei giorni precedenti.
Alcuni alberi rinsecchiti si ergevano a severe sentinelle di questo spazio anonimo, disordinato, quasi insensato. Blocchi di pietra sbucavano da terra in modo confuso. Lapidi. Lapidi consumate dal vento e dall’acqua. Ogni tanto era visibile un nome, una data. Un mondo ebraico scomparso continuava a resistere grazie a questi segni che, disperatamente, non volevano scomparire.
Ci muovemmo con circospezione tra lastre e pietre ricoperte di muschio. Epigrafi quasi invisibili ricordavano persone, vite ebraiche, fantasmi di una comunità la cui memoria galleggiava sul mare melmoso dell’oblio. Le nostre scarpe affondavano nella terra molle e bagnata, camminavamo tra le tombe con fatica. Ogni tanto alzavamo lo sguardo.
Appariva dal nulla Nova Gorica. Nonostante la vicinanza, le case moderne sullo sfondo erano totalmente indifferenti all’anima di quel luogo, assolutamente insensibili al peso della memoria. Le lapidi che sfioravamo con delicatezza ci parlavano, ci raccontavano di un mondo scomparso, di una cultura che incredibilmente, però, continuava a resistere.
Dopo più di un’ora uscimmo. Con lentezza ci avviammo verso il confine con l’Italia. Parlammo poco. I nostri pensieri ci accompagnavano.









©Orith Youdovich. Tutte le immagini. Cimitero ebraico Valdirose, Nova Gorica
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Cimitero ebraico Valdirose, Nova Gorica
Orith Youdovich. Il sito