All the Beauty and the Bloodshed ⋅ Un film di Laura Poitras ⋅ 79° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ⋅ Leone d’Oro.

Per la seconda volta nella storia recente della Mostra d’Arte cinematografica di Venezia  un film documentario vince il Leone d’Oro, la prima era stata con Sacro GRA (2013) di Gianfranco Rosi. Questa volta, la giuria presieduta da Julianne Moore, che annoverava tra le sue fila un autore attento al rapporto tra vita e linguaggi cinematografici come Leonardo di Costanzo, ha premiato un’opera più classica nella forma ma assai interessante per come crea lo spazio del proprio racconto intersecando diversi assi tematici che si dipartono da quel centro focale che è la fotografa Nan Goldin , protagonista ma anche coproduttrice del film. Originaria di Washington, Goldin è nota per il ritratto senza infingimenti che da fine anni Settanta ha dedicato alla New York di Times Square e del Lower East Side, a un’umanità dallo stile di vita radicale fatto di arte, amicizie, amori, dipendenze da sostanze, co-dipendenze relazionali e identità oltre i confini prestabiliti. 

Già in I’ll Be Your Mirror (1997), nato da una collaborazione con Edmund Coulthard, Goldin si narrava ritraendo contemporaneamente una generazione e una temperie di cui lei è stata ed è lo specchio, come recitava il titolo del film mutuato da una canzone di Lou Reed. Qualche anno dopo, anche il corto Contacts (1999) di Jean-Pierre Krief offriva un’immersione nell’universo poetico e creativo della fotografa attraverso il contatto tra scatti, provini, negativi e sua voce fuori campo, espressione di un desiderio di coinvolgimento attivo dell’autrice de Il giardino del diavolo nel racconto della propria storia.

Laura Poitras ritesse i fili della biografia di Nan Goldin e della sua traiettoria nel mondo dell’arte aggiungendo un aspetto fino ad ora meno esplorato, ovvero il suo attivismo. Da anni, infatti, l’artista è impegnata in campagne per la riduzione del danno nell’ambito delle tossicodipendenze e di denuncia delle case farmaceutiche che traggono profitti stellari dal commercio di oppioidi altamente assuefacenti responsabili di un numero impressionante di morti per overdose negli Stati Uniti. Con questo obiettivo dal 2017 opera con l’associazione P.A.I.N. (Prescription Addiction Intervention Now) perché siano riconosciute e sanzionate le responsabilità di case farmaceutiche come la Purdue Pharma, produttrice del pericoloso OxyContin, e posseduta da quella stessa famiglia Sackler che, sostenendo economicamente i più prestigiosi musei, gallerie d’arte e università del mondo si è costruita una forza simbolica che si aggiunge a quella economica. 

P.A.I.N. e Goldin in prima persona si battono per scalfire tale potere e il film mostra il coincidere di due obiettivi la rivendicazione del diritto alla salute e quella per un finanziamento responsabile delle arti attraverso il processo che conduce alla realizzazione di tutta una serie di azioni: le riunioni organizzative e le discussioni del gruppo a casa di Goldin, le manifestazioni e le azioni ispirate alla militanza di Act Up, i flash mob organizzati con straordinaria cura estetica all’interno del Metropolitan Museum per richiedere che il nome Sackler venga rimosso ovunque compare, il potere negoziale esercitato da Goldin sulla Tate Modern perché rinunci al finanziamento da parte dei Sackler, l’accordo legale che dà luogo a un incontro (telematico) durante il quale alcuni membri della famiglia di magnati sono costretti ad ascoltare le testimonianze drammatiche delle famiglie delle vittime di overdose indotta dal farmaco da loro smerciato. 

Per quanto possa sembrare agiografico, questo ritratto di Nan Goldin, ha il merito di far riflettere su una personalità capace di trasformare il riconoscimento pubblico di cui gode in margine di manovra politico a beneficio della collettività. Un modo di agire che non è nato con l’esperienza di P.A.I.N. ma ben prima, almeno da quando nel 1989 fu chiamata a realizzare una mostra sul rapporto tra arte e AIDS e decise di farne una piattaforma collettiva a disposizione non della propria arte ma di altre voci intitolandola “Witness: Against Our Vanishing”. Tra queste voci ci fu quella di David Wojnarowicz che per il catalogo scrisse un saggio talmente audace e disperato nel muovere accuse al governo e al clero rispetto all’epidemia che la National Endowment for the Arts censurerà la mostra e la pubblicazione dando luogo a un caso mediatico. 

Dopo il ritratto di Julien Assange e del caso WikiLeaks tratteggiato in Risk (2016) nonché la trilogia sugli Stati Uniti all’indomani dell’11 settembre composta da My Country, My Country (2006) sulla guerra in Iraq, The Oath (2010) su Guantánamo e dal premio Oscar Citizenfour (2014) su Edward Snowden, Laura Poitras prosegue il racconto di un Paese in cui i demoni dell’imperialismo, del profitto e della supremazia bianca, maschile ed eterosessuale compiono stragi immani e annientano quegli ideali di libertà e democrazia su cui si è sempre radicata la retorica nazionalista a stelle e strisce. 

I sei capitoli che scandiscono il racconto di Poitras, e che intrecciano con fluidità riprese recenti, materiali di repertorio, fotografie, slideshow di alcune delle opere più note di Goldin, da Memory Lost a The Ballad of Sexual Dependency, sono incorniciati e tenuti insieme dalle ragioni personali che hanno indotto la protagonista a sviluppare sin da ragazzina una sensibilità acuta per il problema della salute e un senso di rivolta contro il potere medico-psichiatrico, contro la violenza del controllo sociale. Queste ragioni hanno un nome ed è quello della sorella Barbara Holly, morta suicida a diciotto anni dopo essere stata internata in un ospedale psichiatrico da una famiglia apparentemente “normale” ma in realtà minata alle fondamenta dalle sofferenze di una madre conformista e vittima di abusi.  Secondo i verbali degli psichiatri che avevano in cura Barbara, ritrovati da Goldin, la madre avrebbe meritato cure psichiatriche più della figlia. E invece fu la ragazza, forse lesbica, eccentrica, affettuosa, assetata di vita a soccombere. Di lei rimangono i ricordi di chi la conobbe e le volle bene, le fotografie e le tracce di verbali medici che non riescono a reprimere nel linguaggio burocratico una forza capace di guardare il mondo e di insegnare a Nan come fare. Una ragazza capace di vedere in un test di Rorschach “tutta la bellezza e lo spargimento di sangue” di cui è fatta l’esistenza.

© CultFrame 09/2022

TRAMA
Oltre a essere una fotografa di fama internazionale, nota per la sua capacità di restituire il ritratto di un’umanità dolente da fine anni Settanta ad oggi, Nan Goldin è anche un’attivista che da anni si batte perché venga riconosciuta la responsabilità della famiglia Sackler e della sua Purdue Pharma nell’epidemia di morti da overdose causata dal consumo di un famigerato oppioide.

CREDITI
Regia: Laura Poitras / Montaggio: Amy Foote, Joe Bini, Brian A. Kates / Fotografia: Nan Goldin / Musica: Soundwalk Collective / Interpreti: Nan Goldin / Paese, anno: USA, 2022 / Produzione: Howard Gertler, John Lyons, Nan Goldin, Yoni Golijov, Laura Poitras / Distribuzione: I Wonder Pictures / Durata: 117 minuti

SUL WEB
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – Il sito
La filmografia di Laura Poitras

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