Les Cahiers noirs ⋅ Un film di Shlomi Elkabetz

Quando nell’aprile del 2016 è giunta la notizia della morte di Ronit Elkabetz, il mondo ha pianto la scomparsa a soli 51 anni di un’attrice, sceneggiatrice e regista straordinariamente creativa che ha dato al cinema israeliano e francese e ad autori come Amos Gitai o André Téchiné personaggi di rara intensità. Tra questi spicca la Viviane della trilogia co-diretta con il fratello Shlomi: Prendre femme (2004); Les sept joursShiva (2008) e Gett, le procès de Viviane Amsalem, in Italia Viviane (2014). Un personaggio ispirato alla storia vera della madre dei due, alla sua vita matrimoniale conflittuale, sempre in cerca di libertà tra vincoli sociali e religiosi.

A Ronit, Shlomi Elkabetz ha ora dedicato Les Cahiers noirs I e II, un dittico struggente di duecento minuti presentato in anteprima a Cannes e da poco passato al Festival di Rotterdam IFFR nella sezione speciale Harbour. Immagini di repertorio privato girate tra il 1999 e il 2016, sequenze di vari film e backstage delle opere realizzate insieme compongono un mosaico, un ritratto, a tratti un monumento cinematografico a questa artista e sorella amatissima. Che sia filmato con una cinepresa professionale o con una videocamera leggera per uso privato, il volto di Ronit Elkabetz attrae la luce con singolare magnetismo. Anche nei momenti più difficili non perde nulla della sua abbagliante fotogenia: pelle bianca, capelli corvini e occhi ardenti di una passione tragica, lineamenti drammatici da divinità classica o da “nuova Magnani” come si disse in Francia all’uscita di Prendre femme.

Con devozione alla sorella e al cinema, e con un anelito quasi preveggente, Shlomi ha registrato per sempre conversazioni, feste di famiglia, serate tra amici, viaggi, tour promozionali, momenti di distensione o di lavoro e con i materiali accumulati ha dato forma a un racconto a futura memoria montato nell’isolamento del lockdown. Come se la pandemia avesse concesso una pausa propizia all’introspezione. La prima parte del film si concentra sul rapporto tra Ronit e il personaggio di Viviane in un rispecchiamento forte tra realtà e finzione: alla fine degli anni 70 ad Haifa, Viviane è una donna in crisi con il marito, troppo religioso e tradizionalista, proprio come il vero padre Elkabetz. La coppia vorrebbe amarsi ma non ce la fa e la situazione si complica per le pressioni di istituzioni sociali e religiose capaci solo di imporre le proprie norme con la forza.

Quel film che in Francia ha suscitato entusiasmo unanime, in Israele è accolto abbastanza male sia dalla critica, che mal sopporta l’atto di accusa al tradizionalismo del paese, sia dalla madre che sente la sua storia usata e rivelata ai quattro venti.

Fino a che punto e in che modo è legittimo ispirarsi alla storia della propria famiglia, costruire attraverso di essa un apologo sociale? Dove si ferma l’omaggio e dove inizia l’opportunismo? L’arte, quando incontra la vita diventa materia incandescente, scandalosa, scomoda. Ma la sofferenza non cancella l’amore e la madre cede di fronte a Shlomi che la intervista, cattura il suo disagio, la sua riprovazione, la sua generosità. Accetta che il figlio usi il cinema per venire a capo della vita: “Devo liberarmi da mia madre, dal suo dolore che è diventato il mio dolore. Vederla come una persona e amarla per com’è. Non come una figlia in cerca di una propria identità”. Il padre invece sfugge, risponde a monosillabi e dichiara disinteresse per i film dei figli mentre è presente nella vita affettiva di tutti i giorni. Non un despota, dunque, ma un uomo complesso.

Madre, padre, figlia e figlio sono allo stesso tempo persone e personaggi di un film e di un romanzo famigliare, impigliati come chiunque in una tela narrativa elastica fatta di memorie plurali, di riscritture, di filtri artistici. Ronit/Viviane è la donna che visse due volte, sulla terra e al cinema, e infatti la musica di Bernard Herrmann aleggia sulle immagini come uno spettro, come la profezia pronunciata un giorno da un indovino berbero secondo cui Ronit non avrebbe vissuto a lungo. Fandonie, dice lei con le lacrime agli occhi fingendo di non credere al destino. Eppure, per i due Parigi è proprio la città della predestinazione, quella in cui hanno cercato un riscatto intergenerazionale. Nei loro film raccontano infatti (e chissà poi se è verità o finzione) che da bambino il padre Elkabetz, marocchino poverissimo ma intelligente, aveva ricevuto una borsa di studio per recarsi in Francia. Il giorno della partenza, di fronte alla disperazione della madre, il bambino scende dal treno rinunciando di fatto agli studi e a una vita possibile. Ripiegherà sulla scuola rabbinica. Ai figli tocca allora porre rimedio con i propri sogni al rimpianto paterno che ancora brucia.

E che brucia tanto di più quando Ronit si ammala, come consumata dall’arte. La seconda parte del film è in gran parte dedicata alla lavorazione di Gett, le procès de Viviane Amsalem. Sul set qualcosa non va. L’attrice non è in sé, le mancano i figli piccoli, è insofferente, non memorizza la parte, piange e tossisce. I genitori arrivano sul set con i bambini e la vedono affliggersi, come mai ha una polmonite in piena estate? Il fratello un po’ insiste un po’ non sa che fare dilaniato tra la necessità di portare a termine un’opera costosa e l’inquietudine per la sorella. La sofferenza dell’attrice si sovrappone a quella del suo personaggio. La musica (mutuata da Bernard Hermann) si fa solenne, ingombrante, eccessiva mentre Schlomi confessa di essersi reso conto solo dopo che stava assistendo a una doppia lotta: quella del personaggio di Viviane che tenta invano di ottenere il divorzio di fronte al potere maschile del tribunale rabbinico, e quella di Ronit per la vita. Il film si fa, Ronit e Shlomi lo accompagnano ovunque nel mondo mentre lei si sottopone alle cure. Dentro e fuori dalle scene è sempre il personaggio forte, recalcitrante, passionale. Affronta la malattia come una leonessa e appena può torna a creare. Avevano in lavorazione un film dedicato a Maria Callas quando Ronit se n’è andata lasciando dietro di sé il corpo meraviglioso e immortale della sua immagine cinematografica.

© CultFrame 02/2022

TRAMA
Un giorno, un indovino berbero predice a Shlomi Elkabetz che sua sorella maggiore e partner artistica Ronit Elkabetz morirà giovane. Shlomi cerca di esorcizzare la morte attraverso il cinema, filma la sorella in continuazione, la intervista e intensifica il loro sodalizio artistico tra Parigi e Israele. Nell’arco di dieci anni i due realizzano insieme una trilogia di film ispirati alla storia della loro famiglia dove la presenza carismatica di Ronit è magnificata dallo spessore del personaggio: una donna in lotta per la libertà e contro le convenzioni.

CREDITI
Titolo: Les Cahiers noirs / Regia: Shlomi Elkabetz / Sceneggiatura: Shlomi Elkabetz / Interpreti: famiglia Elkabetz / Fotografia: Shlomi Elkabetz / Montaggio: Joelle Alexis / Produzione: Deux Beaux Garcons Films / Israele, 2021 / Durata: 209 minuti

SUL WEB
Filmografia di Shlomi Elkabetz

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