Incredibile ma vero ⋅ Il cinema di Quentin Dupieux

Frame tratto da “Incroyable mais vrai” di Quentin Dupieux

Presentato nella sezione Special Gala della Berlinale 2022, Incroyable mais vrai è accompagnato, come spesso capita per i film di Quentin Dupieux, da spoiler alert e attese giustificate sin dal titolo, ottima didascalia per l’opera omnia di questo autore-regista-montatore e compositore (noto un tempo nella scena musicale elettronica come Mr. Oizo) a vent’anni dal suo primo lavoro cinematografico in 16mm, anch’esso intitolato in modo emblematico Nonfilm (2001).

Se la coppia di coniugi Alain (Alain Chabat) e Marie (Léa Drucker) è protagonista di una sorta di rivisitazione del genere “ai confini della realtà”, Incroyable mais vrai mescola la loro storia ad altre vicende – in particolare a quella del laido personaggio di Gérard (Benoit Magimel) e della sua vita sessuale con Jeanne (Anaïs Demoustier) – risultando in definitiva un film più malinconico e meno privo di morale di altri firmati da Dupieux. Ciò non toglie che sia anche un film spietato verso le ossessioni umane dell’eterna giovinezza e della virilità a tutti i costi, di cui fa emergere l’assurdità con toni esasperati ma tutt’altro che inverosimili. Come ha affermato anche Chabat presentandolo, in Incroyable mais vrai non si rompe mai la “quarta parete” e si ha così, a differenza che nella produzione statunitense di Dupieux e al pari che nei precedenti Le daim/Doppia pelle (2019) e Mandibules/Due uomini e una mosca (2020), una maggiore identificazione con i personaggi e un procedere più lineare della narrazione che continua però ad accumulare trovate fantastiche e spiazzanti… perfettamente coerenti alla visione e alla poetica del “no reason” enunciata nell’incipit di Rubber (2010), vero e proprio manifesto dell’autore:

“Perché in E.T. di Steven Spielberg l’alieno è marrone? Per nessuna ragione. Perché in Love Story i due protagonisti si innamorano follemente? Per nessuna ragione. Perché in JFK di Oliver Stone il presidente viene improvvisamente assassinato da uno sconosciuto? Per nessuna ragione. Perché nell’eccellente Non aprite quella porta di Tobe Hooper non vediamo mai i personaggi andare in bagno o lavarsi le mani come fa la gente nella vita reale? Perché ne Il pianista di Polanski il tipo deve fare una vita tanto grama quando è così bravo a suonare? Assolutamente per nessuna ragione. Ogni grande film, senza eccezioni, contiene un importante elemento di ‘no reason’, di arbitrarietà. Perché? Perché la vita stessa è piena di arbitrarietà. Signori e signore, il film che state per vedere è un omaggio al ‘no reason’, il più potente elemento stilistico che ci sia”.

Frame tratto da “Rubber” di Quentin Dupieux

Il protagonista di Rubber era uno pneumatico indemoniato di nome Robert che seminava la morte nel deserto californiano, con modalità analoghe a quanto accadrà in Waves, il film immaginato in Reality (2014) da un altro personaggio interpretato da Chabat che sogna di diventare regista. In Rubber, le scorribande del copertone sono seguite da un gruppo di spettatori muniti di binocolo in una ambivalente stratificazione di piani che caratterizza una parte consistente della filmografia di Dupieux, spassosa e al contempo concettuale. Si pensi appunto al lynchiano Reality, con il suo groviglio di piste narrative e scatole oniriche intrecciate da uno script tanto irraccontabile quanto perfettamente orchestrato, ma anche alle interferenze tra flashback e divagazioni della coscienza di Au poste! (2018) che si conclude rivelandosi un congegno teatrale (o forse no).

Nella scrittura e nella messa in scena di Dupieux colpiscono la cura maniacale del dettaglio e la notevole direzione del cast, comprimari e camei compresi (da Marilyn Manson a Orelsan, da Eric Roberts a Ray Wise e Grace Zabriskie, i genitori di Laura Palmer in Twin Peaks, da Michel Hazanavicius a Marie Bunel o Thomas Blanchard). Nelle sue sceneggiature Dupieux gioca infatti con il tempo e il ritmo della narrazione e per questo non affida ad altri il montaggio dei propri film. Ogni suo soggetto procede per concatenazioni di cause/conseguenze, aggiungendo di continuo nuovi elementi che rimettono in questione le relazioni tra i personaggi e ciò che chi guarda crede di sapere. L’ambientazione poi, sempre un poco indeterminata nel tempo grazie ad arredi e costumi molto spesso vintage, contribuisce a proiettarci in un universo compatto e avvolgente anche quando la sospensione d’incredulità viene messa in discussione.

E cosa dire delle musiche? Centrali in Wrong cops (2013), dove un manipolo di poliziotti carogne si diletta con brani elettronici effettivamente firmati da Mr. Oizo, le colonne sonore di ogni sua opera sono parte integrante di un lavoro creativo che al cinema ha debuttato con la complicità del guru della lounge dance francese Sebastien Tellier, anche interprete di Nonfilm (2001) e Steak (2007) insieme al collega Kavinsky, giostrandosi tra inquietanti tappeti sonori e motivetti tormentoni quali il Jon Santo plays Bach (al sintetizzatore) rispolverato in Incroyable mais vrai.

La musica svolge un ruolo-chiave in un’impresa sempre più raffinata nel corso del tempo di détournement surreale e grottesco dei generi cinematografici e delle loro convenzioni. Il regista prende in contropiede, deforma, spappola, annichilisce il poliziesco e l’horror in primis ma anche il porno trash qui e là, il college movie in Steak o il dramma matrimoniale borghese in Incroyable mais vrai. C’è sempre un elemento inanimato che si anima, l’animale che spunta dove meno lo si attende, una deformazione, qualcosa di abnorme, l’esagerazione sorprendente di un dettaglio scenico o narrativo, una forma di estremizzazione del potere creativo che trova correlativi materiali in capricci e provocazioni: un tic linguistico snervante, deturpazioni fisiche senza alcuna giustificazione o ragion d’essere, bagagliai riempiti di cadaveri o insetti giganti, oggetti persi e ritrovati, camionette militari in città ed energumeni travestiti da signora. Questi elementi ricorrenti delineano un universo estetico del tutto personale che strizza l’occhio a un immaginario cinematografico (Lynch, Hooper, Cronenberg e Kubrick ma anche Scemo & più scemo) e televisivo nordamericano (The Twilight Zone, CHiPs, Starsky & Hutch, A-Team, Love Boat, Quantum Leap) ma anche a possibili scene primarie, feticci, fissazioni e motivi profondi (il ratto, il cerbiatto, il cinghiale, la mosca, la sedia a rotelle, il manichino, l’ostrica, l’eczema, la scarpa con il tacco, l’ospedale psichiatrico) che delocalizzati possono provocare tanto il riso quanto il turbamento.

Frame tratto dal film “Doppia pelle” di Quentin Dupieux

Molti motivi ricorrenti attengono poi all’universo delle immagini, tra formati cangianti e processi di realizzazione che rinviano al cinema come ossessione maledetta sia per chi lo guarda sia per chi lo realizza (e lo guarda): si pensi alla videocassetta che spunta nei luoghi naturali più inconcepibili in Steak e in Reality, al rapporto tra lavoro televisivo e aspirazione cinematografica in Reality e alle MiniDV di Doppia pelle, inquietante apologo sulle conseguenze estreme del delirio ossessivo. Quest’ultimo è una variazione sul doppio tema del voyeur narcisista e del ventriloquo maledetto, il cui protagonista compie una serie di omicidi sotto l’“occhio che uccide” della sua videocamera a mano e su suggerimento di una giacca desiderosa di rimanere l’unica al mondo. Oltre all’improbabile giubba scamosciata a frange, la star del film è Jean Dujardin che si mette totalmente a disposizione di questo racconto metafisico a cavallo tra Nikolaj Gogol e Andy Warhol, via via meno burlesco e sempre più inquietante. Accanto a lui, Adèle Haenel ha il ruolo di una montatrice scarrierata e squilibrata pronta a qualsiasi follia pur di realizzare un lungometraggio radicale.

Di film in film, emblematico il caso di Wrong (2012) e Wrong Cops (2013), ritornano interpreti, noti o per nulla quali Grégoire Ludig, Anaïs Demoustier, Alain Chabat, Mark Burnham, Eric Judor, Eric Wareheim, Jack Plotnick, Daniel Quinn, Steve Little. Ma Dupieux riesce anche a coinvolgere star affermate come il comico Benoît Poelvoorde, nevrotico commissario mattatore di Au poste!, i cui dialoghi serratissimi dimostrano il suo talento come sceneggiatore, o Adèle Exarchopoulos di cui Due uomini e una mosca sollecita al parossismo la vena satirico-demenziale. È con la complicità di cast e personaggi sopra le righe come questi che il cinema di Dupieux scardina dal di dentro i codici e le forme della rappresentazione di sogni e incubi, un po’ come l’esercito di copertoni che sul finale di Rubber serra i ranghi e dai piedi della collina guarda Hollywood in lontananza, pronto a dare l’assalto.

© CultFrame 02/2022

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Filmografia di Quentin Dupieux

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