Große Freiheit ⋅ Un film di Sebastian Meise ⋅ 39° Torino Film Festival ⋅ Premio Miglior Attore

Fino alla fine degli anni Sessanta in Germania, essere maschi omosessuali era un crimine previsto e punito con detenzioni fino a dieci anni da un articolo del Codice civile, il paragrafo 175, che peraltro non contemplava neppure l’omosessualità femminile. Introdotto nel 1871, l’articolo è stato pienamente in vigore fino al 1969 ma abolito definitivamente solo nel 1994. Nel 1919, il film Anders als die Andern di Richard Oswald, con Conrad Veidt e un cameo del sessuologo Magnus Hirschfeld, denunciava questa legge raccontando dei tanti che si suicidavano pur di non finire in galera, ed è oggi una pietra miliare del cinema gay. Oltre un secolo dopo, Große Freiheit di Sebastian Meise torna a raccontare un tempo in cui avere rapporti tra uomini costava anni di carcere ma il film non è tanto, o non solo, una rievocazione del passato per misurarne la distanza dal presente quanto piuttosto una riflessione che, a partire da un preciso contesto storico, si domanda cosa sia veramente la libertà.

Il film, che ha vinto il Premio della Giuria nella sezione “Un certain regard” a Cannes 2021 conquistandone poi altri in tutta Europa da Sarajevo a Vienna, è ambientato quasi interamente dentro a un penitenziario, dove, tra la fine della Seconda guerra mondiale e la fine degli anni Sessanta, il personaggio di Hans Hoffmann viene rinchiuso a più riprese per omosessualità. Il tempo sembra scorrere con una lentezza crudele imprimendo agli spazi e alle divise azzurre dei carcerati variazioni minime, un taglio di capelli, un modo di indossare una camicia. Ma il film lavora sui dettagli e significativi elementi visivi annunciano quello che poi nei dialoghi si sviluppa. Quando Hans entra in cella per la prima volta, ad accompagnarcelo è un GI di colore e lui è quasi calvo e scarnificato: per gli omosessuali, la fine del nazismo non equivale a una liberazione ma a un passaggio di consegne che senza soluzione di continuità li trasferisce dai lager alle carceri per scontare interamente le pene previste.

 

La detenzione e la violenza frustrano e distruggono sistematicamente l’anelito di amore e libertà di Hans in questo jail movie scandito dalle mille sigarette della noia, ognuna a suo modo una conquista e un rimando a quell’altro magnifico film di amore e detenzione che è Un chant d’amour (1950) di Jean Genet. Oltre alla brutalità e all’isolamento, però, ogni volta che Hans torna in carcere ritrova Viktor, il primo compagno di cella. Inizialmente i loro rapporti sono difficili, Viktor lo chiama “pervertito” e lo maltratta ma pian piano si dimostra ancora capace di umanità. Tra i due si sviluppa nel corso dei decenni un rapporto profondo, un affetto capace di rovesciare ogni certezza. Hans è l’alieno, l’imprevisto, il motore della Storia, colui che scompagina il senso delle cose, che rimette in discussione cos’è un maschio e cos’è un uomo libero. “La libertà non ce la dà nessuno, la dobbiamo coltivare noi stessi” ha detto Thích Nhat Hanh che durante la guerra in Vietnam aveva conosciuto l’orrore del carcere e delle torture. In Große Freiheit la libertà non è solo stare fuori da una prigione bensì una condizione esistenziale che si nutre di affetto e solidarietà. Hans coltiva la sua libertà aggrappandosi al desiderio, ricordando o inventando un tempo in cui si poteva amare ed essere felici.

Il film affida ad alcune sequenze che somigliano a filmini privati in 8mm il ricordo o il sogno di un pomeriggio trascorso al sole da Hans con uno dei suoi amanti. Ma sono in formato ridotto anche le sequenze iniziali del film, quelle girate di nascosto dalla polizia nei bagni pubblici dove il ragazzo viene arrestato. Le immagini che lo sguardo istituzionale utilizza come prove di una colpa sono per Hans i ricordi di quel godimento fugace e clandestino che la stessa istituzione opprimendolo ha creato. Accanto al grande Georg Friedrich (visto in tanti film di Haneke e Seidl) nel ruolo di Viktor, Franz Rogowski nel ruolo di Hans si conferma un interprete perfetto grazie a una corporeità prorompente e a un volto ambiguo che può essere tanto duro quanto vulnerabile, tanto mostruoso quanto seducente. In lui prendono corpo tutte le contraddizioni che il film mette in luce: il carcere rappresenta certamente il cuore dell’ordine sociale ma anche la metafora di una condizione esistenziale in cui la prigionia può assumere forme più insidiose. Viviamo infatti un’epoca in cui il nostro tempo di vita, le nostre energie creative, financo i nostri sogni ci vengono confiscati con il nostro stesso consenso.

© CultFrame 12/2021

TRAMA
1945: alla fine della guerra, il giovane tedesco Hans Hoffmann passa senza soluzione di continuità dal lager al carcere per via della sua omosessualità, che il famigerato Paragrafo 175 del Codice civile tedesco riconoscerà come crimine fino al 1969. Per oltre vent’anni, Hans entra ed esce dal carcere e ogni volta ritrova Viktor, un detenuto con cui stringe un’amicizia profonda che lo porterà a rimettere in discussione quel che sa sull’amore e sulla libertà.

CREDITI
Titolo: Große Freiheit / Regia: Sebastian Meise / Sceneggiatura: Thomas Reider, Sebastian Meise / Interpreti: Franz Rogowski, Georg Friedrich, Anton von Lucke, Thomas Prenn / Fotografia: Crystel Fournier / Montaggio: Joana Scrinzi / Musica: Nils Petter Molvaer, Peter Brötzmann / Scenografia: Michael Randel / Produzione: FreibeuterFilm GmbH, Rohfilm Productions GmbH / Austria, Germania, 2021 / Durata: 119 minuti

SUL WEB
Filmografia di Sebastian Meise
Torino Film Festival

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