Battiato e il cinema ⋅ una conversazione

Frame di “Perduto amor” di Franco Battiato

Nel 2003 usciva il primo lungometraggio diretto da Franco Battiato e intitolato, per rispettare la forma tipografica con cui si presentava, PERDUToAMOR. La conversazione che segue nacque dopo la sua prima, da principio al telefono e poi durante un lungo incontro nel backstage di un suo concerto ad Asti, a testimoniare la generosa disponibilità del regista esordiente a confrontarsi sul suo rapporto con il cinema.

Tre anni dopo, nel 2006, sarebbe uscito Musikanten (n.d.r.)

Con quale approccio ha affrontato il linguaggio e il mezzo cinematografico in occasione del suo primo film, Perdutoamor, e quali sono le caratteristiche della narrazione che ha messo in scena in modo così poco sequenziale e “letterario”?

Perdutoamor è stato il mio primo lavoro cinematografico. Non avevo avuto esperienze precedenti se non quelle dei video che sono assolutamente lontane, linguaggi diversi e non avvicinabili a quello del cinema, sarebbe come paragonare una canzone a un’opera.

La mia estraneità mi ha quindi costretto a una forte cautela iniziale, nel secondo film potrebbero cambiare moltissime cose, e da questo restringere il campo d’azione è derivata poi un’altra serie di risultati come lo sviluppo di una non-narrazione lineare, ottenuta fissando gli elementi che volevo raccontare come fossero dei tableaux vivants, riconsiderando la drammaturgia tradizionale e lo sviluppo dei caratteri: per tutti i personaggi, e in particolare per il protagonista del film che all’inizio ha circa nove anni e alla fine ne ha circa venti, ho ignorato volutamente l’entrata nella psicologia dell’individuo, lasciandoli come delle figure esterne, ponendo l’attenzione a un altro genere di fine. Ad esempio, cosa che farebbe rabbrividire qualche sceneggiatore americano, il protagonista è in molte scene laterale: è all’interno di un gruppo esoterico e non parla, è in fondo così che per notarlo ci vogliono magari due o tre visioni del film, è completamente decentrato proprio perché davo la priorità ad un altro genere di attenzione e di descrizione.

È in effetti inconsueta questa particolare costruzione delle singole scene, quanto è stato possibile elaborarle in fase di sceneggiatura?

Abbiamo immaginato già tutto subito in sceneggiatura, con poche modifiche sul set, anche perché i cambiamenti che è possibile fare in fase di post-produzione possono essere piccoli, se non hai prima girato in un certo modo: sono solo intervenuto sulla sequenza delle scene o su alcuni effetti speciali, che avevo però già previsto in sceneggiatura, come l’entrata di una nave virtuale o elettronica, che dir si voglia. Ma quella scena anche senza nave sarebbe stata in qualche modo la stessa.

Un’altra scena di cui spesso mi si chiede è quella montata al contrario con i bambini dinnanzi a uno stagno. Anche questa l’abbiamo già fatta così sul set, se no non avrei ottenuto questo risultato: dicevo al bambino di guardare lo stagno additando col dito, e di portare la mano dall’indice verso se stesso e poi abbiamo montato col computer, su Avid, le voci al contrario. Questa scena è nata proprio sul set perché avevamo scoperto che uno strano riflesso sullo stagno faceva una figura di angelo, e durante il montaggio del suono ho immesso una frequenza bassa come se fosse arrivato quest’angelo alla maniera di una nave extraterrestre; dopo questo passaggio i bambini non parlano più il loro dialetto ma una strana lingua, che ne è appunto il contrario.

Come ha lavorato alla colonna sonora del film?

Essendo un musicista, potevo accontentarmi molto meno rispetto ad altri registi di applicare una musica tanto per coprire un vuoto e infatti tutti i titoli che poi sono stati collocati nel film erano presenti già in fase di sceneggiatura, così che immaginavo ogni scena accompagnata dalla sua musica ed era poi per me impensabile sostituirla con un’altra. Ad esempio, avevo scelto un lied di Berlioz, Le Spectre de la rose, cantato in maniera egregia, ma non ci volevano dare i diritti e io non ho mollato, a costo d’andare in causa con la casa di produzione francese: non si trattava di cambiare brano, ne avevo altre cinque interpretazioni ma non erano cantate a quel livello e non ho accettato.

È quindi riuscito a realizzare tutto quanto desiderava così come l’aveva immaginato?

Sì, del film sono comunque soddisfatto perché i temi più legati alla mia visione sono passati. Proprio ieri sera l’ho rivisto in un’arena estiva siciliana insieme al pubblico, avant’ieri abbiamo fatto un dibattito con Nanni Moretti a Roma. In queste arene purtroppo è molto penalizzato il suono, perché ho lavorato al sonoro sul 5.1, impiegando circa un mese per il mixaggio, lavorando sulla diffusione del suono nello spazio, pensando in modo specifico al luogo cinema e mettendo perciò un cane che abbaia a sinistra, una voce che va da sinistra verso destra… Avendo comunque visto il film col pubblico, mi sono immerso nelle loro reazioni e, a parte alcune scene che con l’occhio di oggi han dimostrato una certa fermezza, ingessatura, sono contento del risultato.

Quando si fa un passo del genere la mediazione è già nel contratto mentale, sennò si farebbe tutto un altro genere di musica e di film: se io non dovessi considerare il pubblico in questo gioco di mediazione, che a volte è più affascinante della libertà personale, scriverei cose assurde che soddisferebbero solo me stesso. Quando esci dalla tua stanza, è determinante concedere una qualche mediazione di comunicazione. Detto questo, ognuno segue la propria qualità. A me farebbe orrore come individuo seguire dei meccanismi che portano alla lacrimuccia facile, e che in un film come il mio potevano esserci a centinaia. Ho rifiutato l’idea dell’emigrante tradizionale proprio per questa censura dei luoghi della facilità, del luogo comune, come anche non ho inserito alcun bacio né il senso del rapporto tradizionale tra l’uomo e la donna. Non sono caduto mai nel tranello di utilizzare cose che hanno utilizzato altri, perché ho bisogno di una novità d’immagini che m’intrighi: quando si trattava di esibire al Conservatorio le variazioni sinfoniche di Cesar Frank m’avevano dato a disposizione un’orchestra e avrei potuto fare le cose veramente in grande, ma ho preferito regalare tutta la scena solo alla pianista, proprio perché l’immagine dell’orchestra e del palcoscenico l’ho vista in così tanti film che, se non avessi trovato una soluzione diversa, non l’avrei girata.

Manlio Sgalambro

C’è un secondo progetto cinematografico?

Sì, c’è un secondo progetto, che non so se riuscirò a realizzare, ma che, a parte il fatto che l’esperienza m’ha divertito, nasce dall’avere a disposizione una macchina con la quale puoi correre su piste diaboliche e con cui invece, proprio per non far danni e andare a sbattere, nella prima opera si è molto cauti a pilotare. Oggi credo, anche per un’accelerazione data dall’età, dall’esperienza che uno ha per tutte le cose che ha visto e fatto nella vita, di essere pronto come se avessi fatto quattro o cinque film in uno: a vent’anni avrei fatto i passi più lentamente ma oggi realizzare un altro lungometraggio, anche per puro divertimento tecnico, è un traguardo che cercherò di raggiungere presto.

Questo secondo progetto di film è nuovamente tratto da una sceneggiatura originale, scritta sempre insieme a Manlio Sgalambro. Anche se sarà più narrativo mi accorgo, pensando già filmicamente, che alcune caratteristiche della prima opera rimangono, perché così sono io, che amo la sintesi senza sinistra e destra: a parte queste che sono ossessioni stilistiche, o proprio lo stile di un autore, il film ha una meccanica più tradizionale ed è anche più complesso.

CultFrame 05/2021
Intervista realizzata da Claudio Panella nel luglio del 2003

SUL WEB
Franco Battiato – Il sito ufficiale

 

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