Herr Bachmann und seine Klasse ⋅ Un film di Maria Speth ⋅ 71° Berlinale ⋅ Premio della Giuria

La scuola non smetterà mai di essere per il cinema quel luogo straordinario in cui è possibile mostrare i rapporti di forza che ci mordono sin dall’infanzia. È lì che insegnanti e studenti subiscono e tentano di contrastare, spesso invano, il determinismo sociale e la subalternità culturale più ancora di quella economica. La narrazione di questo piccolo cosmo può concentrarsi sull’individuo, con il rischio di farsi elogio dell’eccezione che conferma la regola, oppure essere corale, perché nessuno si salva da solo. In Herr Bachmann und seine Klasse, la regista e montatrice Maria Speth si destreggia abilmente tra dimensione individuale e collettiva senza privilegiarne una a discapito dell’altra.

Il film mostra il rapporto straordinario di un professore con la sua classe di tredici-quattordicenni senza scadere nella celebrazione dell’insegnante carismatico e narcisista. Per di più, Speth non dissolve gli allievi in un magma indistinto così che, con lo scorrere di questo ritratto fluviale di quello che potrebbe essere un qualsiasi anno di vita scolastica condensato in tre ore e mezza, ci si ritrova a riconoscere i nomi e le provenienze, ad appassionarsi ai comportamenti e alle storie di ciascuno, un po’ come avveniva in Essere e avere (2002) di Nicolas Philibert. Qui, però, siamo in un villaggio operaio ad alto tasso di immigrazione e la classe del professor Bachmann fotografa l’Europa di oggi e il suo proletariato.

La Georg-Büchner-Gesamtschule, dove è girato il documentario, si trova infatti a Stadtallendorf, nell’Assia del Nord, cittadina di circa ventimila abitanti di cui circa il 25% immigrati, molti dei quali operai della fonderia Fritz Winter o del più grande stabilimento estero della Ferrero. Il film ricorre al solo linguaggio visivo per mostrare con alcune brevi sequenze il paesaggio urbano e sociale in cui si inserisce la scuola: la fabbrica, le campagne, i venditori di kebab, i bar dove si fuma la shisha, i negozietti aperti tutto il giorno, la palestra di boxe dove uno degli studenti nutre il sogno di riscatto più classico per un giovane povero. Tutto il resto emerge dai dialoghi e dalle presenze stesse sullo schermo. Bulgaria, Marocco, Turchia, Romania, Italia: nella classe di Bachmann, solo una minoranza è nata in Germania e anche questa da genitori stranieri. C’è chi è immigrato da così poco tempo che a mala pena sa esprimersi in tedesco, senza parlare dei genitori che non sanno dare un nome alle proprie difficoltà o devono ricorrere alle traduzioni rudimentali dei figli per entrare in dialogo con i docenti.

In una cittadina che ha una lunga storia di flussi migratori e che durante la seconda guerra mondiale era uno dei più grandi siti europei per la costruzione di armi e munizioni dove lavoravano i forzati del vicino campo nazista di Münchmühle, anche il corpo insegnante ha retroterra legati alla migrazione o alla persecuzione nazista. Così a lezione si parla assiduamente di Gastarbaiter, esilio, deportazione in una continua messa in relazione tra passato e presente, insegnanti e allievi, allievi e contesto. Una collega di Bachmann interroga la classe sul concetto di Heimat, e quando l’allievo nato in Marocco le spiega perché ha nostalgia di un paese in cui ha vissuto pochissimo, lei inizia a piangere: “Scusate, sono emotiva perché sono incinta”, si giustifica, ma poi spiega che essendo figlia di genitori turchi non ha mai saputo dire esattamente dove fosse “casa”.

Cosa significa “fare scuola” in uno scenario così complesso? Che ruolo ha la valutazione? Herr Bachmann, sessantaquattrenne rock’n’roll e libertario al suo ultimo anno di insegnamento prima della pensione, ha improntato il suo metodo di lavoro all’ascolto delle singolarità e alla loro messa in cooperazione. Non per niente è scultore e musicista e con la classe, tra brevi lezioni di matematica e di lingua, si dedica a plasmare la pietra e a suonare come con una band: attività che sono allo stesso tempo stimolo creativo per studenti non propensi allo studio e metodo per insegnare ad applicarsi con pazienza al lavoro ben fatto e alla vita comunitaria. La band come metafora della scuola e la scuola come metafora di vita: lo mostrava già il mitico Jack Black in School of Rock (2003) di Richard Linklater che ogni tanto torna alla mente nonostante l’opera di Speth sia formalmente più vicina ai film di Béatrice Bakhti della serie Romans d’ados (2002-2008) (2010).

I brutti voti fioccano perché Bachmann non illude nessuno di avere capacità che non ha ma spiega sempre che i voti non dicono nulla di chi siamo che invece è quel che più conta e su cui si concentra tutto il suo sforzo educativo. Dopo un compito andato male, l’insegnante crea delle coppie di mutuo aiuto per la correzione. Un ragazzo contesta questo metodo: “Se Ferhan ha avuto un’insufficienza è colpa sua, perché dovrei aiutarla?”. Bachmann spiega perché chi fatica non ne ha colpa e perché il problema di uno è di tutti. Il ragazzo non è convinto e ci vorrà tutto il film per assistere alla sua evoluzione e a una presa di coscienza che se fosse più diffusa migliorerebbe molto il mondo in cui viviamo.

Herr Bachmann und seine Klasse è una risposta al nozionismo, all’ossessione valutativa, al distanziamento, alla digitalizzazione. Ci mostra che se la scuola ha un senso non è perché trasmette competenze ma perché è una possibilità educativa e l’educazione significa apprendere a relazionarsi facendolo; il che richiede tempo, costanza, pazienza, fatica. Alla fine dell’anno scolastico e con il pensionamento di Bachmann, ci si domanda che ne sarà della sua eredità umana e che futuro attende una generazione forse solo in apparenza vulnerabile. Dovrà farci i conti un suo più giovane collega, il primo professore di origine e passaporto turco.

© CultFrame 03/2021

TRAMA
È l’ultimo anno di scuola per il professor Bachmann, un insegnante sui generis, educatore che si prende più cura dell’umanità dei suoi ragazzi che delle loro competenze.

CREDITI
Titolo originale: Herr Bachmann und seine Klasse / Regia: Maria Speth / Sceneggiatura: Maria Speth, Reinhold Vorschneider / Fotografia: Reinhold Vorschneider / Montaggio: Maria Speth / Produzione: Madonnen Film GmbH / Germania, 2021/ Durata: 217 minuti.

SUL WEB
filmografia di Maria Speth

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