Retrospettiva Věra Chytilová. Doclisboa 2017

Vera ChytilovaLeggere a proposito di Věra Chytilová e vederne i film in occasione della retrospettiva dedicatale a Doclisboa ’17 permette di constatare la resistenza del suo cinema alla classificazione. Cinema femminista, si è detto, per via della forte presenza nella sua filmografia di personaggi in grado di interrogare la relazione tra sessuazione e condizioni di vita e di sfidare le rappresentazioni di genere convenzionali.

In effetti, sin dal 1961, quando ancora studiava alla gloriosa FAMU di Praga con coetanei come Jiří Menzel e Jan Němec che insieme a lei diventeranno noti come esponenti della Nová Vlna, raccontò nel mediometraggio di diploma Strop (Ceiling) la routine di un’indossatrice, sottoposta a manovre come fosse una bambola, oggetto di manipolazioni fisiche e mentali che la stessa regista conosceva bene essendo stata lei stessa modella sia per il tessile sia per fotografi come il suo primo marito Karel Ludwig (1919-1977). Proprio di Ludwig, nel 2000 farà un bellissimo ritratto nel documentario televisivo in due parti Vzlety a Pády (Flights and Falls) dedicato a tre grandi fotografi cechi: Ludwig stesso, Václav Chochola e Zdeněk Tmeje.

Inoltre, nel 1962 Pytel Blech (A Bagful of Fleas) mostrava la vita di alcune operaie in un cotonificio inserendo elementi tipici del cinéma-vérité (improvvisazione, ricorso a non professionisti, macchina a mano) nella cornice di una sceneggiatura che puntava il dito contro il potere dei padroni maschi. L’anno seguente, il suo lungometraggio d’esordio O Něčem Jiném (Something Different) riprendeva l’idea di contaminare finzione e documentario raccontando, con il montaggio alternato, due storie di donne, un’atleta e una casalinga, alla ricerca entrambe di una vita diversa ma forse impossibile. Su questa pellicola lo storico e critico Peter Hames scriverà a fine anni Settanta: “Chytilová ha definito il film un ‘dramma sulla lotta eterna per l’immortalità a fronte della limitatezza dei poteri umani’. Parole magniloquenti ma utili a mostrare quanto l’intenzione del film andasse ben oltre il convenzionale messaggio femminista a cui è spesso ridotto.” Il critico loda il lavoro dell’autrice a discapito di ciò che presume essere il femminismo e il suo riduttivo “messaggio”.

Se il cinema di Chytilová è interessante, ambizioso, vitale, lo è anche in virtù di una visione dell’esistenza umana di cui fa parte a pieno titolo la critica talvolta amara, spessissimo irridente, ai sistemi di potere politico ed economico che sono sempre in vario modo sessuati e che senza dubbio lo erano negli anni Sessanta e Settanta. Eppure, il più delle volte l’opera di Věra Chytilová si dimostra insofferente a un’interpretazione mono-prospettica e ripiegata sul piano della critica sociale. Sedmikrásky (Daisies), del 1966, è emblematico in questo senso. Nato dalla collaborazione con la sceneggiatrice Ester Krumbachová e con il direttore della fotografia Jaroslav Kučera (che diventerà il suo secondo marito e che lavorerà in quasi tutti i film della regista fino alla fine degli anni Ottanta), è un oggetto antinarrativo di caleidoscopica bellezza formale e incerta decodifica che cita il Malle di Zazie nel metro (1960) e anticipa il Rivette di Céline e Julie vanno in barca (1974). Le due protagoniste sono Marie I e Marie II che vivono la vita come un gioco: l’una si fa invitare a pranzo da uomini adulti e l’altra finge di essere la sorella o l’amica ritrovata per caso dopo molto tempo, si siede a tavola con la coppia e mangia come se non ci fosse un domani a spese del malcapitato che presto viene rispedito a casa senza alcuna gratificazione sessuale tra le risa incontenibili delle due.

A differenza delle due Anna de I sette peccati capitali dei piccolo borghesi di Kurt Weil e Bertold Brecht, le due Marie vivono come parassite e compiono praticamente tutti i peccati possibili: si ubriacano, si annoiano, mentono e ridono, ridono, ridono nervosamente per tutto il film fino al climax finale. Dopo la distruzione orgiastica di un banchetto probabilmente destinato a notabili, le due, vestite di giornali e spago, come automi tentano di riparare al disastro: ricolmano i vassoi con gli avanzi spiaccicati, tappano le bottiglie ormai vuote e infine, ripetendo ossessivamente “se facciamo le brave e lavoriamo sodo saremo felici e tutto sarà pulito”, rimangono vittime della propria stessa follia distruttiva. Il grande lampadario a cui si erano arrampicate rovina giù e il montaggio sovrappone il crollo a un’esplosione atomica. Il film termina con una dedica a tutti coloro che sono turbati solo dalla vista di un’insalata spiaccicata. Puntualmente, il film fu oggetto di reprimenda governative proprio sulla base del suo spreco sconsiderato di cibo in tempi di scarsità per la popolazione cecoslovacca.

Sedmikrásky è dunque un’ode all’insubordinazione o una condanna morale del consumismo? Probabilmente entrambe le cose insieme. Ciò detto, quel che conta nel film è l’aspetto visivo scintillante e il modo in cui la costruzione formale è messa al servizio di una riflessione sulla distruzione. A partire da quel momento si delineano ancora più nettamente le direzioni in cui si muoverà la ricerca stilistica dell’autrice: sperimentazione sul montaggio, sull’uso dell’accelerazione, delle ottiche, di una camera sempre in movimento nello spazio, uso simbolico e ardito del colore, cura straordinaria nella composizione fotografica.

Al di là di valutazioni contenutistiche o contestuali, è infatti lo stile a sorprendere ancora oggi in questo corpus di opere cinematografiche. Non c’è un’inquadratura nei film di Chytilová, né i primi, né gli ultimi, né i prodotti televisivi, né quelli destinati al grande schermo che non sia palpitante. L’anarco-surrealismo di Sedmikrásky (Daisies) certo non piacque ai dirigenti di un paese che senza mai bandirla formalmente le rese la vita difficile, almeno secondo quanto lei stessa denunciò in un testo dal titolo “Voglio lavorare” del 1976. Proprio l’anno seguente, fu presentato nella sezione Market di Cannes Hra o Jablko (The Apple Game), storia di un ginecologo che prima rifiuta poi si innamora e ingravida un’infermiera che infine decide di scaricarlo.

Il film è il primo di una serie in cui gli uomini fanno la figura dei poveracci e le donne di vittime non incolpevoli della loro mediocrità e violenza. Anche qui, al di là del ritratto impietoso del personaggio maschile e della parabola della protagonista femminile, quel che conta è nuovamente il modo in cui è girato e fotografato il film con scene di parto senza censura e molto sangue. Una visualità viscerale, attaccata alla materia organica che diventerà fondamentale per la regista la quale, per esempio, racconterà con grande attenzione ai dettagli cos’è la vita di una persona anziana nel corto Čas je Neúprosný (Time is Inexorable) del 1978 mentre alla prima infanzia dedicherà il ritratto intimo Ráj Srdce (Paradise of the Heart) del 1992. Stessa organicità ma decisamente più impietosa è quella che caratterizza Pasti, Pasti, Pastičky (Traps) del 1998 storia di uno stupro vendicato con la castrazione e cronaca della definitiva resa della Cecoslovacchia a un sistema capitalista corrotto e disumano.

Le tragiche ricadute sulle relazioni umane del processo politico di normalizzazione erano già state nel 1979 al centro del farsesco Panelstory aneb jak se Rodí Sídliště (Story from a Housing Estate). Il film mostrava lo sfaldamento delle relazioni di solidarietà attraverso le vicende degli abitanti di un quartiere di enormi condomini ancora parzialmente in via di costruzione: tutti ambiscono ad accumulare e mettere in mostra beni ignorandosi gli uni con gli altri o usandosi reciprocamente come oggetti di consumo. A fare eccezione restano solo un anziano preoccupato della salute di una coetanea e un bambino che cerca un regalo per il padre e rovistando nelle immondizie si rende conto che le persone buttano ormai ogni ben di Dio.

Negli anni Ottanta, la regista fu anche la prima nell’Est Europa ad affrontare cinematograficamente il problema dell’AIDS. Kopytem Sem, Kopytem Tam (Tainted Horseplay) del 1988 è un’altra satira morale, che progressivamente vira sempre più al nero, in cui un gruppo di zuzzurelloni (attori della compagnia teatrale di avanguardia Sklep) è costretta a un’improvvisa resa dei conti con il proprio stile di vita quando a uno di loro viene diagnosticata l’AIDS. Con sguardo feroce e una tensione critica quasi grossolana nei confronti del rampantismo filoamericano e dell’individualismo imperante, in quel film Chytilová parla ormai chiaro in faccia al potere. E dire che in Pravda (1969), Godard bacchettava l’occidentalismo revisionista dell’autrice definendola “valore di scambio del cinema ceco”: “A cosa serve l’ideologia imperialista? A nascondere la realtà, a dimenticare la lotta di classe. Chi utilizza l’ideologia occidentale in Cecosclovacchia? Il revisionismo. Contro chi? Contro l’operaio a cui si impedisce di vedere la contraddizione tra fabbricare missili da inviare nel nord del Vietnam di giorno e di sera andare a vedere Angelica. A trarne profitto sono quelli che se la ridono, che hanno tradito il marxismo, i revisionisti.” Stacco sulla regista che ride.

Come sottolineato dal curatore della retrospettiva di Chytilová a Doclisboa ’17 Boris Nelepo, il riso (amaro o divertito) è la cifra caratteristica di una produzione filmica eterogenea e non caratterizzabile se non come una serie di “farse morali”. Siano essi drammi o commedie, documentari (le interviste a imprenditrici di Kam Panenky…? del 1993 o alle donne politiche del suo ultimo Potížistky del 2006) o film di genere (il bizzarro teen movie di fantascienza Vlčí Bouda del 1986), i lavori di Věra Chytilová testimoniano di una ricerca mai paga di un linguaggio, di uno stile, di una forma, di una prospettiva il più viva possibile per raccontare la tragicommedia umana e reagire alla morte con disperata vitalità.

© CultFrame 11/2017

SUL WEB
Filmografia di Věra Chytilová
Doclisboa 2017 – Il sito

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