Last words ⋅ Un libro di Gabriele Tinti ⋅ Immagini di Andres Serrano

Un letto con una coperta rossa, una stanza apparentemente semplice, una parete spoglia su cui campeggia una sola immagine. Il corpo di un uomo è adagiato senza più forze: in una mano una pistola, una macchia di sangue imbratta la camicia bianca che indossa. Il volto del soggetto si vede appena, le gambe penzolano mollemente verso il pavimento.

Si tratta di un’opera pittorica di Édouard Manet realizzata nel 1877 (intitolata Le suicidé) che si contraddistingue, pur nell’elaborazione stilistica tipica del pittore francese, grazie a una sorta di realismo antiretorico che nell’esperienza della visione del fruitore si trasforma in istantanea presa di coscienza di un evento, di una scelta, che trova la sua potenza destabilizzante nella sua sostanza definitiva.

La questione del suicidio rimane ancora oggi uno dei veri e propri tabù della società contemporanea. Se ne parla pochissimo e quando lo si fa si tende a evitare riflessioni troppo dirette e precise. Eppure, la filosofia, la letteratura e l’arte sono sempre state discipline, del pensiero e della creatività umana, che hanno fatto costantemente i conti con questo “buco nero” che risulta così incomprensibile proprio per la sua terribile assolutezza.

Negli anni Novanta ci ha riprovato l’artista-fotografo Andres Serrano ad affrontare quest’argomento con un lavoro che, all’epoca della sua realizzazione, generò non poche discussioni: The Morgue. Progetto coraggioso, e decisamente pericoloso, in perfetta linea con le scelte espressive e artistiche che hanno sempre contraddistinto l’opera di Serrano, The Morgue mostra il non mostrabile, lancia il suo sguardo nel buio fitto della morte, analizzando fotograficamente ciò che resta dopo la fine di una vita: un corpo senza più coscienza di sé.
Tutti elaborati seguendo una costruzione dell’immagine basata sulla correlazione tra luce, composizione e corpo, gli scatti di The Morgue illuminano il tema della morte grazie a inquadrature che non lasciano spazio a orrende e inutili derive voyeuristiche. Tutto è ricondotto alla forma, allo stile, al concetto filosofico di assenza di vita. Si tratta di uno sguardo laico, aperto e, per certi versi, algido che non esprime un giudizio e non si abbandona mai alla retorica.

Ebbene, otto opere portate a termine nell’ambito di questa controversa esperienza artistica sono collocate in un prodotto editoriale edito da Skira nel 2015: Last Words. Artefice di questa operazione fuori da ogni prevedibilità e convenzione è lo scrittore e poeta Gabriele Tinti, il quale ha affrontato con temerarietà intellettuale un argomento, come quello del suicidio, che, come abbiamo già detto, si manifesta in modo così “sovversivo” da rimanere ancor oggi qualcosa di innominabile e incomprensibile.

La struttura del libro, a parte le immagini di Andres Serrano, è basata sulla pubblicazione di dichiarazioni, frasi, parole “lasciate” da individui che si sono tolti la vita. Si tratta di un percorso, certamente devastante, che fa luce su un passaggio esistenziale categorico, spesso anticipato da una sferzante lucidità. Tinti, però, non desidera capire e fortunatamente non intende spiegare alcunché. Non ci sono commenti diretti alle parole dei suicidi, non viene costruita una teoria sociologica e neanche viene messo in atto un procedimento psicoanalitico. Meno che mai si vuole “documentare” qualcosa.

Ci sentiamo di affermare come il senso di quest’opera fuori da ogni regola (non sapremmo come altro definirla) consista in un’intenzione che ai nostri occhi risulta cristallina. Gabriele Tinti (con la collaborazione di Andres Serrano, visto che le immagini sono state scelte di comune accordo) mette in pratica un principio creativo non ancora accettato dall’establishment culturale e artistico contemporaneo, ovvero si colloca nel territorio fondamentale “dell’osceno”. E per osceno intendiamo dire il “fuori scena”, ciò che non viene mostrato, che viene escluso, che viene considerato “sentiero non percorribile”, dunque non percepibile. Ma è proprio questa zona “oscena” dell’opera artistico-intellettuale che spesso contiene l’unico senso credibile, ovvero quell’indecifrabile e vorticosa interferenza che è possibile rintracciare in ogni fattore umano.

In tal senso, Last words è l’esito di un atto di fabbricazione artistica che si basa sul concetto di scandalo, non inteso come “turbamento della coscienza e della serenità altrui, provocato da azione, contegno, fatto o parola che offra esempio di colpa, di male o di malizia” (come recita il Vocabolario on Line – Treccani), quanto piuttosto come “inciampo”, oppure “impedimento”.

E dal nostro punto di vista possiamo sostenere come non possa esistere procedimento artistico-creativo, o percorso del pensiero, che non contempli la ricerca autenticamente rivoluzionaria e “altra” dell’inciampo, unico elemento, quest’ultimo, in grado di evidenziare la natura tragi-comica (più comica che tragica a dire il vero) della nostra esistenza.

© CultFrame 11/2016

CREDITI
Titolo: Last words / Autore: Gabriele Tinti  / Immagini di Andres Serrano / Prefazione: Derrick de Kerchkove / Postfazione: Umberto Curi / Editore: Skira / Collana: StorieSkira / Anno: 2015 / Pagine: 89 / Immagini: 8 / Prezzo: 17.00 euro / ISBN: 978-88-572-2424-4

SUL WEB
Il sito di Gabriele Tinti
Skira Editore

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