La luce come esperienza

© Pietro D’Agostino. Immagine su carta fotografica b/n
© Pietro D’Agostino. Immagine su carta fotografica b/n
© Pietro D’Agostino. Immagine su carta fotografica b/n

Vi sono due modalità generali per assorbire gli elementi che condizionano la nostra e altrui esistenza: l’assumere e l’assimilare. La prima, l’assumere, presuppone una volontà diretta o indiretta. L’assunzione del cibo può essere determinata sia dalle nostre individuali esigenze alimentari o anche da fattori esterni alla nostra volontà, cosciènte o meno: ad esempio in tutti quei casi relativi al nostro stato di salute ove è necessaria un’alimentazione bio chimica forzata. Oppure inerente alle scelte di tipo culturale che anche qui possono essere scelte personali o indotte, forzate e, in questo ultimo caso il nostro status di salute individuale psicologico e politico-sociale non ne trarrà dei giovamenti se non attraverso degli ingenui compiacimenti. Mentre l’assimilare ha una sua prerogativa; è un processo a se stante e va oltre le nostre capacità decisionali, non posso decidere in maniera autonoma di assimilare o meno un qualsiasi alimento come, d’altro canto, non posso sottrarmi alle influenze culturali e sociali dei posti in cui vivo o ho vissuto, fosse anche per una repulsione negativa alle stesse.

L’allegoria alimentare di paragonare l’otturatore delle macchine fotografiche a un apparato digerente e la pellicola, o il sensore digitale, a un ente vitale che necessita di nutrimento, potrebbe migliorare la cognizione e pertanto una collocazione forse più appropriata delle dinamiche procedurali e dei conseguenti risvolti filosofici legati al dispositivo fotografico. Se da un lato vi è un potere decisionale di chi sta usando un apparecchio fotografico nel momento in cui decide di premere il pulsante di scatto, dall’altro lato vi dovrà pur sempre essere un sistema ricevente, sensibile, che ne assume una presunta autenticità come risultato. E al contrario non vi sarà una cosi detta testimonianza, o prova, a cui il nostro uso del dispositivo è coerente se non ci sarà una registrazione dell’evento conseguente all’aprirsi, in un determinato istante, dell’otturatore.

Ma funziona solo così il dispositivo fotografico? Funziona solo attraverso gli apparecchi fotografici e i suoi accessori? Per essere più chiari: funziona altrettanto senza il processo di assimilazione avente come elemento essenziale il depositarsi della luce sui materiali ad essa sensibili dopo aver attraversato il sistema otturatore? Direi proprio di no. Cosa determina a priori il processo e lo sviluppo del dispositivo e di conseguenza quello del linguaggio fotografico?

Il limite imposto al processo e allo sviluppo del linguaggio fotografico dalla stragrande maggioranza delle generazioni di autori e degli studiosi che si sono occupati di fotografia è quello di considerare la luce alla stessa stregua dell’inquadratura, della messa a fuoco o dell’esposizione, cioè un fattore puramente tecnico. Ciò che è alla base, l’essenza delle attività che accompagnano i processi fotografici, non stanno solo nella teorizzazione tecnica della luce ma nell’esperienza che con essa si attraversa. La luce non è un dispositivo ma un’esperienza che si assimila con o senza la nostra volontà e gli apparati predisposti per far sì che noi possiamo parlare, guardare, fruire, teorizzare (solo per citare alcuni esempi) di fotografia non funzionerebbero per lo scopo con cui sono stati progettati o pensati senza la sua presenza. Non una luce schiava della tecnica e di schemi di rappresentazione non suoi ma libera attraverso uno sguardo senza preconcetti su di essa. Il che equivale a uno sguardo da fotografo consapevole che la fotografia è lo strumento più adatto per cogliere le apparizioni delle cose invece che raccontarle.

Come uso di solito ripetere per fare chiarezza, non rinnego nulla delle pratiche, degli argomenti e delle idee sulla fotografia sinora espresse, essendone parte e nutrito da esse, ma non posso fare a meno di evidenziarne i limiti costruiti su travisamenti ed equivoci non sostanziali inerenti il linguaggio fotografico. Possiamo sondare, parlare, teorizzare, conoscere l’assimilazione dell’elemento luce nella pratica fotografica? Certo che si può, per esempio cogliendo un’apparizione: non un racconto per immagini, ma esprimendo in una sola fotografia la nostra posizione nel mondo. Questa potrebbe essere un’attività utile e cruciale per questo scopo.

© CultFrame – Punto di Svista 01/2015

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