Il confine tra sguardo e immagine

Un individuo è ritratto tramite la modalità del primo piano. Il soggetto ripreso stringe tra le mani una cornice dentro i cui margini è collocato proprio il suo volto. La sua espressione è enigmatica: sembra guardare direttamente verso la macchina fotografica ma, allo stesso tempo, il suo sguardo va oltre: è proiettato verso una dimensione che il fruitore non riesce a percepire. Sulla sinistra dell’inquadratura, oltre lo spazio delineato dalla cornice, si intravede una testa scultorea.

La persona inquadrata è il poeta, drammaturgo e regista Jean Cocteau, l’autore della fotografia è l’artista americano Man Ray. Si tratta di un’opera (datata 1922 e intitolata Portrait of Jean Cocteau) dal cristallino impianto teorico, un’opera-saggio, ovvero una meta-fotografia, che pone numerosi problemi, facendo inevitabilmente scaturire corposi motivi di studio.

Proprio questo “ambiguo” scatto è al centro, insieme a un altro lavoro di Man Ray (Indestructible Object, 1923), del percorso analitico effettuato dallo storico dell’arte e teorico dei media tedesco Hans Belting. Mi riferisco al saggio intitolato Per una iconologia dello sguardo, pubblicato nel libro Cultura visuale – paradigmi a confronto (duepunti edizioni, 2008), raccolta di testi basata sulla presentazione di scritti di alcuni importanti figure come Andreas Beyer, Michele Cometa, Philippe Hamon, W.J.T. Mitchell, Ulrich Stadler e appunto Hans Belting.

Belting si interroga in modo approfondito su un confine non ben distinguibile: quello che dovrebbe separare lo sguardo e l’immagine. Lo studioso mette nero su bianco alcune interessanti affermazioni. La prima: “i nostri sguardi producono autonomamente immagini del mondo”. A questa, potremmo collegare altre due frasi: “la tesi che le immagini rappresentino il nostro sguardo viene contraddetta dal fatto che gli sguardi sono irrappresentabili e indecifrabili”; “le immagini si creano nel corpo ma si rendono visibili solo nei media”.

Queste asserzioni dello storico dell’arte tedesco inducono a effettuare un ragionamento che però, con tutta certezza, non potrà fornire risposte precise. Proverò solo a fermare alcuni punti, sui quali eventualmente chi legge potrà ragionare in maniera del tutta autonoma.

Se si verifica con qualsiasi dizionario della lingua italiana (ma evidentemente questa stessa operazione dovrebbe essere effettuata praticamente su tutte le lingue della terra), le parole sguardo e immagine sono “trattate” in maniera diversa. La prima – sguardo – è racchiusa in pochi significati precisi: atto di guardare, facoltà visiva, veduta. Tutto è concentrato sull’atto in sé, sulla capacità visuale attivata da un procedimento fisiologico. Se si verifica la seconda – immagine -, vengono fuori diverse, e più sfumate, accezioni: forma esteriore percepita dai sensi, visione interiore, figura che evoca un’idea, rappresentazione mentale di oggetti non presenti.

A questo punto ritorniamo al saggio di Hans Belting ed estrapoliamo un’altra significativa frase: “è difficile individuare dove finisce lo sguardo e inizia l’immagine”.

Come è possibile comprendere ci stiamo addentrando in una sorta di labirinto che rende molto difficile trovare una via di uscita. In sostanza, l’immagine si configura come un territorio molto complesso e vago nel quale si può passare da una dimensione “realistico/razionalistica” a un’altra legata all’interiorità, alla psicologia, all’immaginazione. Lo sguardo sarebbe invece un’azione fisiologica, anche se secondo Belting, però, produrrebbe “autonomamente immagini del mondo”, quindi avrebbe una capacità creativa al di là dell’atto in sé. Ma è proprio lo studio in questione a mettere subito in chiaro che il confine tra sguardo (atto del vedere) e immagine (visione interiore, rappresentazione mentale) è non individuabile.

Quest’ultima considerazione è utile per comprendere la natura della disciplina fotografica, pratica che appare situata proprio lungo l’indecifrabile sentiero che separa sguardo e immagine.

In tal senso, Portrait of Jean Cocteau di Man Ray appare un esempio significativo. Cocteau (reinquadrato dalla cornice) è “guardato” da Man Ray (tramite il dispositivo ottico). Cocteau “guarda” in macchina (dunque Man Ray) ma, allo stesso tempo, proietta il suo sguardo oltre chi lo sta fotografando (la direzione degli occhi di Cocteau, infatti, è sottilmente sfuggente), chiamando in causa il fruitore terzo ed esterno alla fotografia e un altrove non identificabile.

L’immagine/opera di Man Ray, dunque, sembra voler rappresentare l’azione fisiologica degli occhi di Jean Cocteau, il quale però “dirige” il suo sguardo verso qualcosa che può solo immaginare (il fruitore terzo o chissà che cosa). Di conseguenza, Portrait of Jean Cocteau non descrive alcunché, poiché non è lo sguardo attivo di Cocteau che Ray tenta di inquadrare quanto piuttosto la rappresentazione mentale/visione interiore che quest’ultimo sta elaborando. E la cornice che circonda il viso del poeta non fa altro che rafforzare il senso dell’operazione.

In definitiva, Man Ray in questa sua opera ha messo in atto un procedimento allusivo legato ai problemi (probabilmente non risolvibili) del ritratto, del valore della direzione dell’atto visivo e del senso della raffigurazione del volto umano (e ciò ovviamente chiama in causa la storia del ritratto in pittura).

Alla luce di quest’ultima affermazione, che ci proietta in un’area teorica totalmente aperta, non resta che proseguire (in futuro) con un’altra riflessione che riassumiamo in una domanda: esiste una differenza tra percezione e sguardo?

NOTA: I significati dei termini sguardo e immagine sono stati tratti dal Grande Dizionario Illustrato della Lingua Italiana di Aldo Gabrielli (DCE Spa – Gruppo Mondadori, 1989)

© Punto di Svista 06/2013

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