Cosa rimane di un festival… di fotografia

Hikka Halso. Restoration

Da tempo ormai ci si domanda quale senso abbia realmente un festival dedicato a una forma d’arte (qualsiasi). Nell’ambiente cinematografico, almeno in Italia, abbiamo assistito negli ultimi anni a una concentrazione spaventosa di eventi che ha impoverito la forza del “meccanismo-festival” trasformandolo solo in una vetrina (più o meno ampia e utile) organizzata non tanto per una vera esigenza culturale (di ricerca) ma per soddisfare qua e là municipalità varie, istituzioni e potentati politici che avevano bisogno di un megafono in grado di amplificare l’immagine appannata di un luogo, di un museo, di una città.

In campo fotografico, il discorso (se possibile) si fa ancora più complesso, visto che il nostro paese ha visto il fiorire di un sistema di “micro-festival”, divenuto una sorta di circolo autoreferenziale iper concentrato sul mondo del fotogiornalismo e su quello amatoriale.

Fin dalla sua fondazione il Festival FotoGrafia di Roma ha cercato di sottrarsi a quest’ultima logica, proponendosi come manifestazione dal respiro europeo (vedi Arles) e come spazio ideale di produzione di fotografia, di scoperta di talenti sconosciuti in Italia, e centro nevralgico di coinvolgimento del “territorio”.
In tutti questi anni, FotoGrafia è stato guidato dal suo ideatore e fondatore Marco Delogu, a cui spesso si è rimproverato (probabilmente con qualche ragione) un’impostazione troppo personale e decisionale, relativa soprattutto alle modalità di costruzione annuale del programma. Sta di fatto che senza l’abnegazione del suo ideatore, FotoGrafia probabilmente non sarebbe mai esistito. E poi chi criticare, se non chi si espone in prima persona e chi fa concretamente qualcosa? Stigmatizzare da fuori un prodotto culturale è operazione facile che ha spesso il gusto della gratuità.

Ebbene, chi scrive ha sempre considerato FotoGrafia patrimonio della città di Roma ma anche un evento imperfetto, forse un po’ scomposto, dispersivo, confuso e ipertrofico (almeno fino al 2008). Nonostante ciò, questa manifestazione possedeva una vivacità (forse un po’ folle) che consentiva all’intero programma, magari non organico, magari privo di una reale messa a fuoco della situazione dell’arte fotografica mondiale, di proporre degli improvvisi “lampi di fotografia”, come raramente capitava di vedere in Italia. Ebbene, dopo la transizione dell’edizione 2009, il 2010 doveva essere l’anno del rilancio del Festival, della sua catarsi, del suo allineamento a determinate tendenze contemporanee, forse mai del tutto rintracciate nelle passate edizioni.

A parte la “Commissione Roma”, era molto attesa la nuova struttura: tre sezioni (Fotografia e Arte contemporanea, Fotografia e New Media, Fotografia e Editoria). Un progetto ambizioso che presupponeva un gigantesco e serio lavoro di ricerca in grado di proporre una visione moderna della fotografia nel rispetto della fotografia stessa.

La nostra visita agli spazi di MACRO-Testaccio (sede effettiva del Festival, a parte tre accademie straniere e un circuito molto ridotto) era dunque preceduta da aspettative tutt’altro che caratterizzate da pregiudizio e prevenzione. Anzi, ci aspettavamo una manifestazione più attuale e moderna, capace di divenire una rappresentazione razionale delle tendenze contemporanee e di far emergere la fotografia di oggi, e del domani.

Il discorso fatto per Marco Delogu (e cioè che è molto facile sparare a zero su chi le cose le fa esponendosi in prima persona) vale anche per i tre curatori dell’edizione 2010: Paul Wombell (fotografia e arte contemporanea), Valentina Tanni (fotografia e new media), Marc Prust (fotografia ed editoria). Si dirà, dunque: facile criticarli. Nonostante la consapevolezza da parte nostra delle enormi difficoltà (spesso anche di carattere economico) nelle quali si devono destreggiare organizzatori di festival e le ottime intenzioni dei neo-curatori, non possiamo esimerci per onestà intellettuale e professionale, dall’evidenziare la nostra perplessità rispetto al risultato finale di questo processo di mutazione del Festival romano.

L’impressione è che l’elefante abbia partorito un topolino. Le tre sezioni create per l’occasione collocate nelle sale di MACRO-Testaccio hanno proposto al pubblico una concezione della fotografia vagamente deprimente e non in grado di ricollocare la fotografia moderna all’interno del movimento delle arti visive di oggi. Ci sembra che un’eccessiva concettualizzazione del fare (fare?) fotografia sia deleteria per la disciplina in questione. Proviamo a spiegarci.

Prendiamo ad esempio la sezione Fotografia e New Media e il relativo testo di presentazione redatto dalla curatrice Valentina Tanni. Appare chiaro che si sia voluto rintracciare non tanto il reale rapporto tra fotografia e mezzi di comunicazione odierni quanto piuttosto alcuni casi (per altro già superati) di uso concettuale/linguistico dell’immagine digitale (immagine, non fotografia) nei sistemi comunicativi moderni. Che ci sia “un processo di rimediazione” o di “disseminazione inarrestabile del fotografico” è un dato di fatto incontrovertibile, così come indiscutibile è la natura “malleabile” della fotografia. Ma cosa hanno a che fare “questi processi” con il fare fotografia?  Se si vuole sostenere che il “fare fotografia” non è (più) il cuore dell’espressione fotografica, si fa un discorso vecchio, si ritorna su questioni già risolte dalla fotografia stessa e successivamente ampliati dall’arte contemporanea. Quanto al “sorgere di una vera e propria estetica”, bisognerebbe mettersi d’accordo sul concetto di estetica, discussione che forse ci porterebbe troppo lontano.

Sulla sezione Fotografia e Editoria sospendiamo il giudizio di merito, poiché più che il senso del progetto curatoriale (di cui sinceramente ci è sfuggita la sostanza) ci è sembrato striminzito l’impianto espositivo, cioè l’impatto della sezione all’interno del progetto del Festival. Abbiamo avuto la sensazione di trovarci davanti all’abbozzo, o all’evocazione, di una sezione piuttosto che dinanzi una sezione vera e propria. Fotografia e arte contemporanea ha dovuto pagare invece forse un’adesione un po’ castrante al tema del festival (ma perché si insiste ancora con il tema?) che probabilmente ha impedito al suo curatore di spaziare in maniera libera e realmente innovativa nel settore in questione.

Infine, ancora una notazione sulla quasi totale assenza di neo-progetti (a parte quelli di Tod Papageorge su Roma e quello di Giuliano Matteucci intitolato Ecclesia) che ha trasformato il festival non in un luogo creativo ma in uno spazio del già esistente, a volte del già visto.

Con questo articolo, ci rendiamo conto di manifestare un giudizio che potrebbe essere a suo volta criticato. Di ciò ne siamo coscienti e accetteremo con  il giusto spirito ogni  contro-valutazione (questa è la dialettica democratica).

Il nostro scopo è solo quello di aprire un dialogo e un dibattito corretto su un evento culturale che sta cercando di trasformarsi, tra mille rischi e insidie. Non sarebbe interessante che tutte le realtà che ruotano, a vario titolo, intorno a questo festival partecipassero a un confronto costruttivo, trasparente e civile, così come avviene in ambito cinematografico? Magari, sul web oppure in incontri pubblici? Noi riteniamo di si.

© CultFrame 09/2010

INFORMAZIONI
Dal 24 settembre al 24 ottobre 2010
Macro Testaccio / Piazza Orazio Giustiniani 4, Roma / Telefono 060608
Orario: martedì – domenica 16.00 – 24.00 / chiuso lunedì
Direttore artistico: Marco Delogu

SUL WEB
MACRO Testaccio, Roma

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