Roman Polanski

Roman Polanski. 13 agosto 1933 (Parigi) 

roman_polanski-oliver_twistOliver Twist rappresenta nella filmografia polanskiana una sorta di apparente deviazione dello sguardo, di nuovo territorio da esplorare. Dopo aver raggiunto il vertice della sua parabola creativa con Il Pianista, Roman Polanski ha compiuto una sorta di lieve mutamento di direzione che però non nega il suo precedente percorso, anzi contribuisce ad evidenziare aspetti ancora non perfettamente chiari.
Con Oliver Twist, dunque, l’autore franco-polacco non ha cambiato radicalmente la sua cifra poetica, ha solo concepito una nuova articolazione narrativa utile ad alimentare in modo non prevedibile la sua riflessione sulla Shoah e sulla sua condizione di bambino fuggiasco e perseguitato dai nazisti.
Polanski, in sostanza, ha utilizzato la struttura del romanzo di Dickens per approfondire ulteriormente il discorso iniziato fin dai suoi primi cortometraggi.
In tal senso, non è affatto vero, come parte della critica ha sostenuto, che Oliver Twist sia un film tradizionale e senza particolari guizzi stilistici, di stampo classico. Si tratta invece di un lungometraggio che è parte integrante di una poetica solidificata nei decenni e che continua la sua naturale evoluzione.
Di conseguenza, non è possibile isolare Oliver Twist dal resto della filmografia polanskiana. Ed è necessario per comprendere a pieno questa operazione mettere a fuoco le tematiche sotterranee, le motivazioni nascoste, ed evidenziare quella sensibilità celata che rappresenta il dato di tutta la sua cinematografia.
L’autore de Il Pianista ha effettuato una sorta di nuovo passo in avanti di carattere autoanalitico affrontando le disavventure simboliche del personaggio Oliver Twist, fanciullo la cui esistenza è caratterizzata da solitudine, abbandono, violenza, sopraffazione, perdita di identità. Esattamente ciò che contraddistinse l’infanzia di Roman Polanski nella Polonia occupata dai nazisti. Questi fattori continuano evidentemente a perseguitare il regista obbligandolo a compiere un processo costante di rielaborazione e di contrasto della rimozione.
In Oliver Twist, oltretutto, è molto ben evidenziata la questione centrale, nello studio della Shoah, del rapporto tra vittima e carnefice. Quando Oliver apprende che il suo aguzzino, il laido e perverso ricettatore che lo costringeva a rubare per le strade di Londra, è in carcere in attesa di essere impiccato sente il bisogno di andare a trovarlo, sostenendo che in fin dei conti “era stato buono con lui”. Ebbene, si tratta del brano più drammatico e struggente della pellicola poiché evidenzia come l’esercizio della violenza, in alcuni casi, inneschi una crudele spirale psicologica alla quale chi è vittima spesso non riesce a sottrarsi.
È un tema delicatissimo, quest’ultimo, che Polanski ha affrontato praticamente in tutta la sua carriera e che a nostro avviso ha trovato la sua massima espressione nella prima parte della sua attività con capolavori come Il coltello nell’acqua e Cul de sac.
Ed ancora, Londra raffigurata nei suoi quartieri più fatiscenti e poveri sembra un universo chiuso nel quale ogni attività umana è caratterizzata da una tendenza contagiosa al male. Le case sono cadenti, le strade piene di fango, i rapporti umani drammaticamente violenti e squallidi. In questo contesto di degrado e sofferenza, Oliver Twist non solo conduce un’esistenza di abbandono ma viene privato della sua identità, sfruttato, maltrattato, e solo grazie all’incontro casuale con quello che diventerà il suo “tutore” che il suo percorso si aprirà verso la speranza salvifica di un’esistenza più sopportabile.
Esattamente come altri film (Repulsion, Cul de sac, Che?) la dimensione esistenziale del protagonista è collocata in uno spazio angosciante all’interno del quale la regola principale è quella della sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Dunque, Londra, come la casa di Catherine Deneuve in Repulsion, il castello isolato di Cul de sac, la villa mediterranea di Che?, è un luogo di tormento dove i diritti dei bambini vengono calpestati, addirittura non considerati come possibili.
La capitale britannica, rappresentata come un grande labirintico lager, o come un ghetto popolato da individui mostruosi, è il palcoscenico del dolore vissuto da Oliver/Roman, il quale, oltretutto, è anche vittima della propria incapacità di riconoscere il male e di difendersi dalle insidie di una società malata. 

Tale poetica, come già detto, prende forma già agli inizi degli anni cinquanta, periodo in cui Polanski studia e si diploma in cinematografia presso la Scuola di Lodz. I suoi primi corti evidenziano alcuni fattori inequivocabili. Prendiamo come esempio tre titoli: Il crimine, Due uomini e un armadio e Il grasso e il magro. Sono opere realizzate tra il 1956 e il 1960 che hanno degli elementi in comune: la condizione di sofferenza dei protagonisti e la raffigurazione della prevaricazione dell’uomo sull’uomo. Mentre in Due uomini e un armadio, questa dimensione esistenziale è stemperata in un contesto narrativo dalle connotazioni grottesche e surrealiste, negli altri due film gli aspetti angosciosi  della condizione umana sono trattati in forma molto più diretta.
Il crimine è un corto molto semplice e breve. Un individuo dorme in una stanza spoglia. All’improvviso la porta si apre ed entra un uomo armato di coltello di cui non riusciamo a vedere il volto. Quest’ultimo, con atteggiamento implacabile, pugnala l’individuo dormiente, uccidendolo all’istante senza alcuna logica spiegazione.
Dopo questo gesto, apparentemente privo di senso, esce dalla stanza e scompare. Ne Il grasso e il magro viene raffigurato il rapporto “malato” tra un uomo che sembra essere il “padrone” e un soggetto indifeso costretto a fare ogni sorta di ridicolo spettacolo davanti al sua aguzzino. A quest’ultima vicenda viene spesso attribuita una doppia dimensione espressiva beckettiana e ideologica. Il rapporto di classe tra padrone e servo è però senza dubbio la metafora del concetto di sopraffazione individuale, nucleo contenutistico centrale riguardante il tema della Shoah. Tra “grasso” e “magro” è in atto una sorta di rapporto vittima-carnefice, rapporto di sudditanza psicologica che delinea anche la sostanziale incapacità da parte del “magro” di liberarsi da questa condizione di sottomissione che lo riduce ad essere “(s)oggetto senza personalità”. 
Ne Il crimine, la connotazione realistica relativa alla rappresentazione dell’omicidio gratuito, nasconde al suo interno una dimensione metaforica.
L’aguzzino/assassino opera con la stessa freddezza della logica nazista: annichilire un’altra vita, solo per il fatto che questa vita esiste. La vittima è inerme, sola e abbandonata al suo tragico destino. Non è in grado di difendersi e neanche di comprendere quale sia il reale pericolo che sta per abbattersi sulla sua esistenza. Un gesto netto e definitivo provoca la fine una vita senza che sia possibile immaginare un movente.
Una piccola storia, questa de Il crimine, all’interno della quale si colloca la fragorosa tragedia della Shoah, trasportata in un contesto narrativo fortemente compresso e tragicamente algido.   

La violenza, spesso inspiegabile, la follia e la sopraffazione dell’uomo sull’uomo, il tema dell’identità, la discriminazione: questi sono gli argomenti centrali della sua poetica.
In base a queste considerazioni un film come Il Pianista può essere considerato come il vertice di una vicenda creativa che ha poi avuto, come già affermato, un punto di ulteriore svolta con Oliver Twist.
Il Pianista, pur ricostruendo le disavventure del musicista Wladyslaw Szpilman, in verità ripropone le vicissitudini infantili dello stesso autore.
La vicenda di Szpilmam, infatti, inizia proprio all’interno di un ghetto ebraico e, durante lo svolgimento della seconda guerra mondiale, si evolve successivamente in una fuga disperata e solitaria.
Esattamente come Polanski, Szpilman si separa dalla realtà, nega la sua identità, nel disperato tentativo di rimanere agganciato alla vita.
Il piccolo Polanski, preso da una sorta di meccanismo di autodifesa irrazionale, nascose la propria identità per tutto il periodo della guerra, e anche dopo. D’altra parte in maniera paradossale fu proprio la persecuzione subita che “ricordò” a Roman la sua appartenenza al popolo ebraico, così come il protagonista de Il Pianista si rese conto di essere ebreo dopo che fu rinchiuso nel ghetto.
L’interprete principale de Il Pianista, Adrien Brody, sembra assumere il ruolo di alter ego del regista, di personaggio che simboleggia lo stato di sofferenza non solo individuale ma anche di un’intera collettività violentata in modo aberrante.
Il Pianista, film girato con grande abilità e forza espressiva, dunque mette a fuoco la sorte non di un soggetto ma di un popolo, quello ebraico, costretto da sempre a doversi difendere da pregiudizi, persecuzioni razzistiche, atti di prevaricazione.
Questo lungometraggio si configura come un lavoro della piena maturità polanskiana, lavoro che ha permesso al cineasta di far venire fuori tutto lo spessore della sua vicenda personale e allo stesso tempo di raccontare con grande tensione morale la Shoah e lo sterminio del suo popolo.
Questo film ha avuto un ruolo fondamentale nella messa a fuoco della memoria. Per tutta la sua precedente produzione filmica, Polanski si era sempre espresso all’interno di un labirinto di metafore e allusioni che evidentemente dovevano confrontarsi con l’azione traumatizzate della memoria, azione che poi ha trovato il suo approdo, la sua affermazione palese, proprio ne Il Pianista

roman_polanski-inquilino_terzo_pianoUno dei lavori centrali in questo percorso interiore polaskiano è senza dubbio L’inquilino del terzo piano.
Ad un’attenta analisi dei contenuti dell’opera appare infatti evidente il suo collegamento con il tema della Shoah.
Il protagonista, Trelkovsky, è una persona anonima e inerme. Non intende lasciare un segno della sua presenza ma solo condurre un’esistenza tranquilla, divisa tra il lavoro e la sua casa. Cerca di stabilire rapporti umani sempre sotto tono e con timidezza, senza provocare tensioni di nessun genere. Ma ogni suo passo per stabilire relazioni con altri individui è costantemente ostacolato.
Le sue giornate sono costellate da contrattempi e soprusi direttamente connessi alla sua condizione di diversità etnico-sociale: si tratta infatti di un polacco in terra francese. Ebbene, se da una parte tale fattore è corrispondente ad un aspetto reale della vita di Polanski da un’altra allude anche, con tutta evidenza, alla sua condizione di ebreo perseguitato.
Questo processo di messa a fuoco dell’identità prosegue con l’arrivo di Trelkovski nell’appartamento che ha preso in affitto, appartamento collocato all’interno di un condominio che si dimostra subito ostile nei suoi confronti. Anche in questo luogo, che dovrebbe essere “protettivo”, Trelkovski viene perseguitato e vessato dagli altri abitanti, e indicato come diverso e “strano”. Tale situazione porterà il protagonista a immedesimarsi nella figura della precedente inquilina, lesbica, che aveva tentato, tempo prima, il suicidio probabilmente per le discriminazioni di cui era stata vittima.
Questo perverso meccanismo si dilaterà enormemente fino a quando Trelkovski, annichilito psicologicamente, intraprenderà una sorta di tragitto autodistruttivo; metterà in atto diversi tentativi di suicidio, effettuati a ripetizione tra gli applausi degli abitanti del palazzo e allucinazioni che lo faranno sprofondare sempre più in una condizione mentale disturbata.
L’inquilino del terzo piano fa allusione in tutto e per tutto alla tragedia della Shoah: il palazzo ghetto/lager, la persecuzione ingiustificata, la discriminazione etnico/sociale, la presunta diversità del protagonista, la ricerca di un’identità tra affermazione di sé e negazione delle radici, il desiderio di autodistruzione.
Così, in questo vortice drammatico il protagonista vive i suoi giorni in una sorta di campo di sterminio mascherato di cui lui è l’unico disperato prigioniero.
Ma il fatto che il piccolo polacco Trelkovski sia interpretato magistralmente dallo stesso Polanski fa comprendere come L’inquilino del terzo piano sia l’ennesima rielaborazione filmica della tragedia personale del regista, tragedia da cui evidentemente non è mai riusciti a liberarsi.

roman_polansky-rosemary_babyRoman Polanski è autore dotato di un vivace e multiforme eclettismo espressivo. È grazie a tale predisposizione che dalle atmosfere deliranti e ossessive de L’inquilino del terzo piano il regista è stato in grado di passare al clima mozartiano e leggero di Che?.
I riferimenti alla Shoah però  permangono tutti. Questa volta cardine del racconto è una figura femminile, la quale si ritrova all’interno di una casa ghetto (una villa sul mare) ed è costretta a subire un processo di inquinamento dell’identità provocato dalle continue aggressioni che gli individui che ruotano interno a lei mettono in atto.
Il personaggio principale, interpretato da Sidney Rome, si aggira per questa casa dovendo sostenere una condizione di fragilità e isolamento e cercando disperatamente di creare un rapporto reale con gli altri ospiti della casa-lager. Ma la sua esigenza di comunicazione è in continuazione destabilizzata dall’ingresso in scena della violenza, violenza che subisce e che deve a sua volta necessariamente praticare. Il suo è un continuo movimento alla ricerca di una dimensione di stabilità nel tentativo di fronteggiare le situazioni più assurde in una condizione di completa debolezza.
La ragazza non sembra rendersi conto esattamente di cosa succede intorno a lei, non comprende, ingenuamente, la pericolosa natura della persecuzione di cui è vittima.
La protagonista di Che? evoca chiaramente le vicende umane di quegli ebrei, totalmente inseriti nei meccanismi del società germanica, sostanzialmente assimilati, i quali non riuscirono mai ad accettare che la loro patria li considerasse improvvisamente estranei, altri rispetto al corpo sociale di cui si consideravano parte integrante. 

roman_polanski-cul_de_sacIn Cul de Sac, il racconto vede come elementi portanti i proprietari di un castello isolato e un criminale che li prende in ostaggio, all’interno della loro stessa casa. Il rapporto tra questi individui è improntato alla massima ambiguità dei comportamenti. I due soggetti della coppia presa in ostaggio hanno in diverse occasioni la possibilità di ribaltare la situazione, di trasformarsi da vittime in carnefici. Di fronte all’assurdo che si è palesato nella loro esistenza, i due sono però incapaci di reagire, di trovare strumenti razionali che possano permettere loro di identificare una via di uscita. Questo blocco psicologico porterà i protagonisti verso il baratro, verso la deriva psicotica, deriva che culminerà nell’atto definitivo dell’omicidio.
Tutta questa vicenda si svolge nella dimensione simbolica e contraddittoria di un dualismo di spazi.
Da una parte il personaggio-casa, dall’altro lo spazio aperto, il mare e l’isolamento  creano una dimensione ambientale contraddittoria, spinta fino al parossismo. Questa impostazione psicotico-ossessivo-simbolica trova una sua ideale prosecuzione in quello che è considerato uno dei film più importanti dell’intera filmografia polanskiana: Rosemary’s baby.
Anche in questo caso, la casa-personaggio svolge un ruolo fondamentale. Così come in Cul de sac, la protagonista viene “presa in ostaggio” nella sua stessa abitazione e si trova a dover subire violenze inaudite.
La setta che si impadronisce della sua vita, ed anche di quella del marito, agisce secondo criteri palesemente nazistoidi. Si tratta di un gruppo che mette in atto un’azione vessatoria e persecutoria, trasportando la vittima in un vortice allucinatorio nel quale perderà la coscienza della sua stessa umanità.
La casa del personaggio principale diviene un autentico lager, luogo di annullamento della coscienza umana, dove tutto è permesso e dove la sopraffazione diventa pratica che si colloca in una dimensione addirittura mistica.

Questo impianto contenutistico viene completamente capovolto da Polanski nel film La morte e la fanciulla. In uno Stato ex fascista dell’America Latina, una donna che in passato ha militato nella Resistenza contro il regime conduce una vita da reclusa all’interno di una villa isolata collocata in uno spazio aperto e privo di reali riferimenti spaziali (esattamente come in Cul de Sac).
Per un evento casuale, la donna entra in relazione con un medico che dopo qualche tempo gli fa tornare in mente, a causa del tono della voce, la figura del suo feroce torturatore durante la repressione fascista.
In questo caso, la ex vittima decide di ribaltare i ruoli e di trasformarsi in carnefice, effettuando una sorta di processo sommario che serva a far emergere la personalità mimetica dell’ex persecutore e a scardinare la rimozione psicanalitica del dolore. Polanski evoca attraverso questa storia la vicenda interiore di molti sopravvissuti alla Shoah, divisi tra esigenza iniziale di dimenticare e la successiva volontà di fare giustizia rispetto alle orrende umiliazioni subite.
La morte e la fanciulla tocca un punto chiave nell’elaborazione della Shoah, poiché trasporta il discorso sullo sterminio nella realtà temporale/spaziale dei regimi nazifascisti del Sud America, alludendo, attraverso questa operazione, al processo storico-politico che si verificò in Europa negli anni quaranta.
I punti di contatto di questo lungometraggio con opere come Il portiere di notte e La passeggera sono evidenti.
Nel caso de La Morte e la fanciulla, la protagonista però non subisce più l’attrazione erotica nei confronti del torturatore. La connessione psicologica tra i due soggetti è caratterizzata solo dal disprezzo assoluto che la ex vittima ha nei riguardi di quello che fu il suo aguzzino. Si tratta da parte della donna non di una vendetta ma della volontà di eliminare definitivamente la sensazione di sbigottimento e incredulità che la colse totalmente impreparata al momento del suo arresto. Si tratta  di quel senso di sorpresa e incredulità che gli storici hanno attribuito agli ebrei durante il nazismo, incredulità che avrebbe di fatto paralizzato ogni capacità di reazione.
In verità così non fu, poiché gli ebrei sia per quel che riguarda il periodo dei ghetti che per quello relativo ai campi di sterminio organizzarono forme di resistenza e di rivolta che portarono anche ad alcuni episodi decisamente clamorosi.

La questione del destino e dell’impossibilità da parte degli individui di sottrarsi ad esso emerge anche in Chinatown. Quest’opera, pur non toccando direttamente l’argomento Shoah, appare centrale nel percorso poetico polanskiano. È infatti una complessa operazione di carattere intellettuale che tratta argomenti connessi a talune condizioni sociali, politiche e ideologiche che possono favorire la nascita di atteggiamenti di stampo razzistico e discriminatorio.
Anche il protagonista, Gittes (Jack Nicholson), come il personaggio centrale de L’inquilino del terzo piano, non riesce a rendersi conto di cosa gli stia succedendo. La sua impostazione mentale, di stampo razionalistico, non gli consente di padroneggiare l’inafferrabilità della realtà. Questo personaggio può essere considerato una sorta di proiezione dell’ebreo totalmente inerme di fronte alle farneticazioni del nazismo.
In una scena, Gittes si reca nel corso di un’investigazione in una casa di riposo per anziani. In questo contesto rivolge improvvisamente una domanda al direttore dell’Istituto. Chiede se accettino, o meno, ospiti di religione ebraica ricevendo una risposta negativa molto stizzita.
Più che il tema della Shoah affiora, dunque, in Chinatown prepotentemente il tema dell’antisemitismo, tema che Polanski colloca nel cuore dell’America democratica e moderna, nemica del nazismo.

roman_polanski-repulsionInfine, Repulsion, film che insieme a L’inquilino del terzo piano e a Il Pianista rappresenta uno dei passaggi fondamentali della carriera registica di Polanski. Il perno del racconto è rappresentato dal personaggio di Carol (Catherine Deneuve), ragazza attraente e sensibile che conduce un’esistenza caratterizzata da fobie, ossessioni e allucinazioni. Il fattore che però dà sostanza al personaggio non è la sua dimensione psicologica disagiata ma le condizioni sociali e umane che la spingono sempre più nel baratro dell’isolamento e del distacco dalla realtà. Carol decide di “rifugiarsi” nella sua casa-lager, accettando apparentemente la sua condizione di emarginata e prigioniera. Tale situazione non fa altro che ingigantire a dismisura la sua presunta follia ma non produce l’annientamento della sua personalità. Al contrario questo processo innesca una delirante e compulsiva affermazione di sé.
Carol è dunque una “diversa” che vive la propria disavventura individuale in contrapposizione al cinismo e al conformismo della società.
Il personaggio centrale di Repulsion è portatore di elementi metaforici che per molti versi possono essere ricondotti all’infanzia di Polanski e rappresenta l’altra faccia della medaglia della condizione di sofferenza dell’ebreo perseguitato che questa volta non sceglie di autodistruggersi nel suicidio ma intende affermare la propria personalità pur nell’abisso della deriva allucinatoria.
Alla luce di questo percorso sembra possibile affermare che tutto il cinema di Polanski è una poliedrica metafora della sua condizione di bambino ebreo costretto a sopravvivere nella Polonia occupata dai nazisti.

Tutta la sua filmografia è caratterizzata da opere che evidenziano la violenza della società e il cinismo di un mondo che si scaglia contro i deboli e gli indifesi. Dunque, la carriera di Roman Polanski è di fatto l’articolazione linguistica, in chiave filmica, del lento processo di autoanalisi e di superamento della fase di rimozione che ha effettuato nell’arco di cinquant’anni e che l’ha portato fino al capitolo più toccante e interiore, ovvero alla realizzazione de Il Pianista, alla definitiva attualizzazione della memoria.


BIOGRAFIA

roman_polanskiRoman, il cui vero nome è Raymond Lieblinz, è nato il 13 agosto del 1933 a Parigi. La famiglia, pur di chiare origini ebraiche, non lo indirizzò certamente a una vita di tipo religioso. Per motivi mai precisati, i genitori di Roman decisero proprio prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale di fare rientro in Polonia, nella città di Cracovia. Tale scelta fu indubbiamente avventata. Dopo poco tempo, infatti, oltre allo sviluppo devastante del conflitto, ci fu l’occupazione nazista e furono messe in atto delle feroci vessazioni contro la popolazione ebraica. Roman fu così rinchiuso nel ghetto di Cracovia insieme ai genitori che poi furono deportati nei campi di sterminio, dai quali la madre non fece più ritorno.
Polanski riuscì fortunatamente ad evitare la deportazione fuggendo dal ghetto e diventando di fatto un fuggiasco fino a quando una famiglia cristiana lo accolse e lo nascose.
È dunque ovvio che una tale devastante esperienza abbia segnato il futuro regista, influenzando la sua produzione artistica.

©Maurizio G. De Bonis
Testi tratti dal libro L’immagine della memoria – La shoah tra cinema e fotografia di Maurizio G. De Bonis (Onyx Edizioni, 2006)

CultFrame 01/2010


FILMOGRAFIA

1962 Il coltello nell’acqua
1965 Repulsion
1966 Cul de sac
1967 Per favore non mordermi sul collo
1968 Rosemary’s Baby
1971 Macbeth
1973 Che?
1974 Chinatown
1976 Linquilino del terzo piano
1979 Tess
1986 Pirati
1988 Frantic
1992 Luna di fiele
1994 La morte e la fanciulla
1999 La nona porta
2002 Il pianista
2005 Oliver Twist

LINK
CULTFRAME. Cofanetto Roman Polanski
CULTFRAME. Il pianista. Il film di Roman Polanski in dvd

IMMAGINI
1 Frame dal film Oliver Twist
2 Frame dal film L’inquilino del terzo piano
3 Frame dal film Rosemary’s Baby
4 Frame dal film Cul de Sac
5 Frame dal film Repulsion
Roman Polanski

 

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