Dietro Cahun. Seconda parte

Claude Cahun. Autoritratto , 1928

Dimenticata per lungo tempo, Claude Cahun viene riscoperta solo negli anni Ottanta. In seguito alla pubblicazione nel 1992 di una biografia scritta da François Leperlier (“Claude Cahun, l’écart et la métamorphose”) si moltiplicano le iniziative che ne diffondono il nome e l’opera: dalle mostre fotografiche ai saggi, dalla ripubblicazione dei suoi scritti a un film-documentario sulla sua vita. Ancor più della sua arte attrae forse il suo personaggio. Il suo essere donna e omosessuale, proprio i motivi che un tempo avevano reso più ardua una sua celebrità, la portano oggi alla ribalta. E attirano l’attenzione soprattutto sulla sua attività di fotografa, segnatamente su una gran quantità di “autoritratti” en travesti. L’ossessione del proporsi davanti alla macchina fotografica come un’identità instabile e mutevole, fatta di maschere, sembra farne l’antesignana di Cindy Sherman, ma anche di un certo femminismo postmoderno. La tematica intima e autobiografica, legata al gioco dell’ambiguità sessuale, l’ha fatta paragonare a Nan Goldin.

Una lettura delle immagini di Cahun attraverso il filtro degli studi di genere, pur essendo avvincente è, però, largamente fuorviante perché al di fuori di una prospettiva storica reale. E il suo stesso ruolo nella creazione di immagini fotografiche, pare, vada parzialmente rivisto. Nella realizzazione, e presumibilmente nello progetto stesso degli autoritratti, come dei collage d’ispirazione surrealista, fu certamente coinvolta Marcel Moore. Costei – detta da Cahun “l’altra me stessa” – a partire dal 1909 fu una presenza costante, la cui influenza di certo ebbe un gran peso, pur essendo soprattutto Cahun ad apparire sulle scene della società, con l’impatto delle sue mise maschili da dandy e dei suoi capelli cortissimi spesso tinti di rosa o d’oro, negli anni che le vedevano frequentatrici degli ambienti artistici parigini.

Claude Cahun fu, prima di tutto, una scrittrice, ma anche un’attrice: sentiva d’esserlo nella vita quotidiana; e lo fu per un periodo anche sul palco del Théâtre Esotérique di Paul Castan. Nel disegnare un complesso emblema – sorta di logo societario – da giovane aveva tracciato le lettere “L S M” (iniziali intrecciate di Lucy Schwob e Suzanne Malherbe, che suonavano “Elles s’aiment”) sopra una figura composta da un piede in una scarpetta a tacco alto, che sosteneva un occhio e una bocca sormontati da una mano. Col proprio nome aveva individuato la bocca e la mano, con quello della compagna l’occhio e il piede: come dire che su quel piede si poggiavano tanto lo sguardo di Malherbe, quanto le parole e i gesti di Schwob.

Simboleggiando un essere nato dall’unione di due distinte e complementari individualità, Cahun assegnava a Moore un ruolo di “base”. E forse pensava al mito platonico di un’umanità primigenia fatta d’individui simili a gemelli siamesi maschi, femmine e androgini, i quali, scissi per volere di Zeus, si sentono spinti alla ricerca della metà mancante: l’altro sé stesso; nel quale ritrovare una completezza. Si sa che Moore fu sempre dietro la macchina fotografica e poi in camera oscura; alla luce di quanto detto, sembra strano ridurre il suo ruolo a quello di una semplice operatrice. Piuttosto, la sua presenza, che poteva occhieggiare in forma di ombra all’angolo di un’inquadratura, o, in un’altra, il suo posare innanzi allo specchio in luogo della compagna, sono fra gli indizi che hanno talora fatto pensare ai cosiddetti “autoritratti” come a una sorta di gioco privato, più che a una consapevole ricerca artistica.

Se i collages o le anamorfosi (la più nota delle quali è quella pubblicata sulla copertina della novella di Georges Ribemont-Dessaignes “Frontières humaines”) avevano una loro ragion d’essere nell’adesione agli stilemi del Surrealismo, e non vanno molto al di là di questi, nei “ritratti” dei molti volti di Cahun troviamo un’indiscutibile originalità, che trae spunto da una motivazione personale profonda. La “mascherata” e la moltiplicazione dell’Io individuale, per Cahun tende all’asessualizzazione, e infine all’annullamento di quest’Io destabilizzante. Essa va oltre il semplice “smascheramento” di una società maschilista: sconfina nella psicoanalisi, o meglio nella psicoterapia. Tendenza che si può riscontrare anche in certi scritti di Cahun.

Sullo sfondo degli “autoritratti” c’è un’angoscia per la quale volto e maschera si confondono: “Sotto questa maschera un volto. Non finirò mai di sollevare tutti questi volti”, scriveva Cahun in “Aveux non Avenus”. Nondimeno resta probabile che queste foto fossero “generate” da un intento comune delle due artiste, sul quale possiamo solo fare congetture, visto che di Moore conosciamo molto poco e di Cahun, in realtà, solo quel tanto è servito a farne una figura stereotipa, e sopra le righe. Molto adatta al gusto dei giorni nostri, e nella quale si vuole scoprire a tutti i costi un’anticipatrice.

A quanto sembra, però, Claude Cahun non fu affatto una femminista, e anzi abbiamo testimonianze di una sua più o meno inconscia misoginia. Né portò avanti una prematura istanza gender. Nel suo lavoro c’è forse una critica alla convenzionalità dei ruoli maschile e femminile, che la isolavano nel mondo dell’arte non meno che in società. Una critica che – malgrado la sua forma -non era sostenuta, tuttavia, da premesse teoriche simili a quelle di Judith Butler, la quale alla luce di un lungo discorso filosofico giunge a vedere il genere come un costrutto fluido slegato dalla condizione sessuale biologica. Aveva, bensì, come riferimenti culturali Havelock Ellis e Karl Heinrich Ulrichs, i quali si limitavano ad assolvere come “naturali” comportamenti sessuali considerati prima di allora immorali o addirittura criminosi, senza mettere in discussione il legame fra sesso e potere, o la sovrastrutturalità dei ruoli sessuali: di Ellis – secondo le cui teorie il sesso è “mutabile” ed esistono molti stadi fra un essere totalmente maschile e uno totalmente femminile – in particolare, Cahun aveva tradotto un libro. A Ulrichs, invece, – che aveva coniato, traendolo dal “Simposio”, il termine “uraniano” per designare un “terzo sesso”, quello omosessuale – parrebbe accennare nel titolo di uno dei primi scritti cahuniani, rimasto inedito, “Les Jeux uraniens”. Da notare il fatto che i due teorici avevano parlato soprattutto, com’era scontato in quell’epoca, di omosessualità maschile; proprio come il dialogo platonico.

Claude Cahun aderì alla cultura del proprio tempo e lo visse, con gli strumenti che esso offriva, da outsider. Un’ipotesi abbastanza scontata farebbe pensare a tutta la sua opera come ad un continuo tentativo di giustificare il suo esserci come individuo che si pone al di fuori delle categorie. Spesso le sue immagini, così come i suoi scritti, sembrano porre questioni sul suo diritto di essere semplicemente diversa da tutti gli altri. Cahun l’aveva chiamata la sua “mania dell’eccezione”.

© CultFrame 03/2007

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Autoritratti di Claude Cahun
Immagini realizzate da Claude Cahun

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