La verità e mezza di Bruce Chatwin e Werner Herzog

Werner Herzog, ovvero il regista dell’estremo, il cineasta che cerca la poesia nel parossismo esistenziale, nelle ossessioni inspiegabili. Sono rari i lavori nell’ambito della sua filmografia nei quali non sia riconoscibile la sua impronta precisa, sono praticamente assenti lungometraggi in cui non sia rintracciabile un istinto furibondo verso la conoscenza, la ricerca incessante del senso del mondo, la volontà di comprensione dei misteri delle realtà. Tali aspetti hanno da sempre determinato in Werner Herzog una profonda esigenza di espressività poetica che è possibile riconoscere anche nella sua fondamentale produzione documentaristica.

Le opere documentarie dell’autore tedesco non rispondono mai solo a un principio di realtà, anzi la realtà sembra essere presente ma sullo sfondo, mentre ciò che conta è far emergere la poesia anarchica del reale, la dimensione assurda delle cose, attraverso un processo estetico in cui la registrazione tecnologica del mondo è solo la base per far venir fuori prepotentemente la follia umana. Il suo campo d’azione, così, va dalla finzione alla documentazione estrema, dalla creatività visuale al racconto di fatti, dalla descrizione di misteri etno-antropologici alle elaborazioni di profili umani che hanno più a che fare con il mito, e i suoi abissi, che con la psicologia di tipo occidentale.

Come non ricordare operazioni fuori schema come la folle impresa di Fitzcarraldo (1982) o la narrazione della pazzia umana in Aguirre furore di Dio (1972), come non far volare il pensiero a documentari capolavoro come Wodaabe, i pastori del sole (1989), dedicato a una tribù sub-sahariana che pratica rituali sociali antichissimi e lirici, e Apocalisse nel deserto (1992), film incentrato sulla raffigurazione della devastazione ambientale e paesaggistica verificatasi nel deserto kuwaitiano/iracheno durante la cosiddetta Prima Guerra del Golfo.

Il suo ultimo film, Nomad: in the footsteps of Bruce Chatwin risponde a questa logica. Anche dietro questo ennesimo documentario magistrale c’è la mano registica di un autore unico nel panorama internazionale, nonché lo spirito filosofico che guida da sempre il suo animo di osservatore curioso del mondo.

Bruce Chatwin e Werner Herzog

Il film è dedicato all’amico/scrittore/viaggiatore/studioso Bruce Chatwin, scomparso all’eta di quarantanove anni (dopo essersi ammalato di AIDS) nel 1989. Chatwin e Herzog erano due “fratelli”, condividevano le stesse ossessioni, avevano gli stessi identici obiettivi, cercavano le stesse “stranezze”, coltivavano entrambi la passione nei riguardi del “diverso” e del non occidentale, di ciò che non conoscevano e che forse faticavano a capire. Le loro strade si incrociarono molte volte, le loro discussioni si intrecciarono in numerose occasioni (specie in Australia, durante le loro ricerche sugli aborigeni), fino a quando Herzog decise di trasformare in film un’opera letteraria dello stesso Chatwin: Il viceré di Ouidah (n.d.r. il lungometraggio di Herzog si intitola Cobra verde – 1987).

Nomad: in the footsteps of Bruce Chatwin è un documentario commovente ma mai melenso. Possiede un fondo di verità duro, secco, tagliente, seppur molte venature di affetto si manifestano attraverso il racconto di Herzog, il quale con in spalla lo zaino di pelle del vecchio amico scomparso da decenni, cammina lungo le strade e i sentieri che l’esile corpo di Chatwin aveva attraversato durante le sue esplorazioni. Un po’ come lo scrittore e viaggiatore britannico, Herzog manifesta una realtà volutamente non precisa e non asettica, ma non si tratta di “una mezza verità”, quanto piuttosto di “una verità e mezza”. Ebbene, quest’ultima è un’altra caratteristica che legava fortemente Werner e Bruce, la loro capacità di comunicare il mondo privandolo della banalità della reale e “aumentandolo” per renderlo più poetico.

Herzog ammirava Chatwin e Chatwin ammirava Herzog. I due dialogavano, si scambiavano idee, inseguivano i loro sogni in conversazioni in cui il logorroico Chatwin aveva sempre “la meglio”. Eppure, i “paesaggi sconvolti herzoghiani” erano un chiodo fisso per lo scrittore di In patagonia, rappresentavano forse una fonte di ispirazione esattamente come il film di esordio di Herzog del 1968: Segni di vita. Il regista bavarese e il viaggiatore inglese erano (sono) dunque due esploratori del mondo che  grazie ai loro deliranti percorsi volevano (vogliono) comprendere cosa rappresentasse veramente il genere umano.

La morte prematura di Chatwin ha interrotto una relazione intellettuale dai tratti eccezionali, finanche un affetto toccante. Con Nomad: in the footsteps of Bruce Chatwin, Herzog ha fatto rivivere questa “relazione artistica e mentale” e ci ha consegnato un’opera cinematograficamente pregevole e umanamente alta.

© CultFrame 10/2019
Film presentato alla Festa del Cinema di Roma 2019

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