Ri-scoprire il cinema di Shirley Clarke ⋅ Il progetto distributivo Reading Bloom

Da Ornette: Made in America

«Per anni mi sono sentita emarginata, perciò mi identificavo con i problemi delle minoranze. Pensavo fosse più importante essere una specie di dannato tossico alienato piuttosto che una donna alienata che non si sente parte del mondo e invece vorrebbe esserlo». Così dichiarò nel 1976 al “Los Angeles Times” la cineasta Shirley Clarke, figura di punta del cinema underground statunitense sviluppatosi attorno all’esperienza della Filmmakers’ Co-Op di cui, con Jonas Mekas, fu tra le creatrici.

Shirley Clarke
Shirley Clarke

Nata borghese, Clarke fece ottimi studi universitari e si sposò per potersi affrancare appena possibile dal controllo paterno. Intraprese la carriera di ballerina studiando con coreografe del calibro di Martha Graham, Hanya Holm e Doris Humphrey. Verso i trentacinque anni, però, comprese che la danza non le avrebbe permesso di continuare ad esprimersi artisticamente come avrebbe desiderato e di ottenere il riconoscimento a cui aspirava. Così, acquistò una cinepresa con cui iniziò a girare, sotto la guida, tra gli altri, di Hans Richter, e poi a realizzare i documentari e i film sperimentali per cui è conosciuta ancora oggi.

Conosciuta ma non abbastanza, ecco perché risulta particolarmente benvenuto il progetto della piccola casa di distribuzione cinematografica torinese Reading Bloom che, grazie alla collaborazione con la statunitense Milestone Film, nel 2017-2018 sta ridistribuendo in Italia molti film di Shirley Clarke in versione restaurata. I restauri sono stati condotti da Ross Lipman e dalla UCLA Film & Television Archive grazie a un finanziamento della Film Foundation di Martin Scorsese.

Lipman, che ha già lavorato, tra gli altri, al restauro dell’opera di John Cassavetes, Charles Burnett e Bruce Conner è anche autore del documentario Not Film (2015) che racconta il recupero di Film (1965) di Alan Schneider, lungometraggio scritto da Samuel Beckett e recitato da Buster Keaton che sempre grazie a Reading Bloom ha circolato in alcune sale d’essai italiane. Una figura, insomma, particolarmente esperta nel trattamento di pellicole underground e di avanguardia.

Ornette: Made in America
Ornette: Made in America

Negli ultimi anni, Lipman ha restaurato per Milestone capisaldi del New American Cinema a firma Shirley Clarke come The Connection (1962), Portrait of Jason (1967) e Ornette: Made in America (1985), tutti acquisiti ora da Reading Bloom per l’Italia così come alcuni cortometraggi sperimentali e film di famiglia. Tra i film di Clarke, solo The Cool World (1963), prodotto da Frederick Wiseman, rimane in possesso di quest’ultimo e non è ancora stato riedito.

La ridiffusione dell’opera della cineasta è partita nel cinquantesimo anniversario dalla grande rassegna dedicata al New American Cinema organizzata dall’Unione culturale di Torino nel maggio 1967 e ricordata da Fondazione Prada con un mese di proiezioni tra cui il corto Bridges–Go–Round (1958). Reading Bloom, invece, ha portato lo stesso corto insieme a Brussels Loops (1958) al Lido nei giorni del Festival di Venezia 2017 con alcune proiezioni sonorizzate dal vivo dalla musicista pisana Maria Teresa Soldani, esibitasi sulla barca di Edipo che fu di Pasolini. In seguito, nel dicembre 2017 all’Unione culturale di Torino, sono stati mostrati alcuni preziosi filmini privati girati dal padre di Shirley e poi da lei stessa tra gli anni Quaranta e Sessanta con un accompagnamento live di basi elettroniche, clarinetto e loop station appositamente realizzato dal polistrumentista Roberto Paci Dalò.

All’ultimo Filmaker Festival di Milano, invece, è stato mostrato Ornette: Made in America (1985), l’opera più recente della regista, in cui tornano alcuni elementi caratteristici del suo lavoro attraverso il ritratto del genio del free jazz Ornette Coleman (1930-2015) tra gli anni Sessanta e gli Ottanta. In primo luogo, anche qui come in The connection, la musica jazz non è solo colonna sonora e oggetto del discorso ma vero e proprio linguaggio alle cui strutture sono improntati anche il ritmo e il montaggio sincopato del film in cui si alternano immagini di repertorio del musicista, interviste, clip televisive, scene di finzione in cui un bambino interpreta momenti dell’infanzia del protagonista, filmate in formati diversi: Super-16mm, 35mm e video.

Tutto questo materiale, girato tra il Texas, New York, la Nigeria e il Marocco, vortica come un’ellissi attorno a due fuochi, ovvero due memorabili esibizioni di Coleman e della sua Prime Time band: l’esecuzione di Skies of America in occasione dell’inaugurazione del teatro Caravan of Dreams a Fort Worth, e quella di Prime Design / Time Design da parte di un quartetto d’archi sotto una cupola geodetica progettata da Buckminster Fuller. Clarke privilegia il ritratto corale, in cui il protagonista emerge dal rapporto con altri: prima di tutto il figlio e collaboratore artistico Denardo Coleman, colto in vari momenti della vita, nonché artisti come William S. Burroughs, Brion Gysin, Yoko Ono, Charlie Haden, Don Cherry, Robert Palmer, John Rockwell e Jayne Cortez.

Documentario sui generis, Ornette non smentisce la passione della sua autrice per il cinema come mezzo d’indagine intima e psicologica. Particolarmente toccante è, verso la fine del film, la profondità con cui Coleman racconta l’evoluzione della propria identità in rapporto alla sessualità dichiarando di essere «una persona e non un maschio» sintetizzando esperienze e riflessioni teoriche piuttosto complesse.

Qui, come in tutto il cinema documentario di Shirley Clarke, il rapporto che si stabilisce tra chi filma e chi è filmato permette di cogliere alcune verità sui soggetti che stanno davanti e dietro la macchina da presa ma anche della società in cui vivono e dei conflitti che li attraversano. Sessismo, razzismo, dipendenza, violenze, disperazione emergono dai gesti, dai racconti, dai ricordi di ciascuno rendendo ogni film della regista esemplare della connessione tra pubblico e privato, tra vita e cinema.

Chirley Clarke. Portrait of Jason
Chirley Clarke. Portrait of Jason

Il modo in cui varie forme di soggettivazione e dominazione (di classe, sesso, razza, sessualità, genere) si tengono insieme nei ritratti che emergono nei documentari di Shirley Clarke è ancora oggi avanguardistico e davvero eccezionale per l’epoca in cui la regista lavorò. Già piuttosto attenta alla vita delle comunità afro-americane, Clarke poté entrarvi direttamente in contatto e addirittura filmarla in alcuni dei suoi aspetti (la droga, la prostituzione, il jazz) grazie al rapporto con Carl Lee, incontrato durante le riprese di The Connection, di cui era uno dei protagonisti, e di cui divenne la compagna. Fu grazie a lui che conobbe il pirotecnico gigolo Aaron Payne protagonista di quel capolavoro della video-intervista e pietra miliare del cinema a tematica omosessuale che è Portrait of Jason.

Infatti, una delle tante ragioni per cui i film di Shirley Clarke conservano ancora oggi il valore artistico e sociale che hanno è perché sono il risultato di un’intelligenza capace di partire da sé, dalle proprie domande e sensazioni, dalla propria alienazione per andare verso gli altri, comprenderne il vissuto, interrogarlo, approfondirlo e mettersi in contatto con altre forme di alienazione. Il suo cinema merita dunque di essere ri-scoperto e studiato con attenzione.

© CultFrame 01/2018

SUL WEB
Filmografia di Shirley Clarke
Il sito della casa di distribuzione italiana Reading Bloom
Il sito del progetto statunitense di restauro dei film di Shirley Clarke

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